A Giuseppe Multedo, côrso
Te, come donna sconosciuta ancora,
Che la voce e l’andar suo c’innamora,
O Corsica, pensai con lieto amor.
Quando vidi spuntar le Sanguinare,
Figlie gemelle tue, cui bacia il mare,
E Aprile il capo e il lembo orna di fior’,
Parvemi quasi di finir l’esiglio:
Italia! Italia! dissi: ogni tuo figlio
Stimai fratello, e gli tendea la man.
Ma freddi o schivi i più de’ tuoi vedea
D’Italia al nome: e il cor mi si facea
Come d’amante ch’ha sperato invan.
Gli è ver ch’italo ferro il piè ti strinse,
Che Genova tiranna a te s’avvinse,
S’avvinse a te come serpente suol,
Che, vecchio e stanco, all’ali s’aggroviglia
D’aquila giovanetta: ella gli artiglia
Le squammee spire, e morde, e tenta il vol.
Ma se del tuo nemico a te diletta
L’acre dolor, compiuta è la vendetta:
Dalle tue rupi il torrido soffiò
Vento, che di lontane onde l’altera
Regina un tempo, ligure bandiera
Con la spezzata antenna in mar lanciò.
Itala terra sei. Nell’accorata
Delle tue donne funeral ballata
Spirano i suoni che il mio Dante amò.
Ai pingui colli dell’Euganeo suolo,
Alle balze del ripido Nïolo
L’alber medesimo i suoi germi fidò.
Ebbe anch’Italia antichi i suoi tiranni,
Li prese e ruppe; e, di famosi affanni,
Per agognate vie, bella salì.
E d’Amalfi a Milan, d’Adria a Tortona,
Fitte, siccome i pini in Vizzavona,
Città pugnaci pullulâro un dì;
Città, di re terror, donne di regni:
E volàro e posâr’ gl’itali ingegni,
Delle terre e dell’onde imperator’.
Quell’odio che i tuoi figli, Isola forte,
Consuma, e ad uno ad un li getta a morte,
Provincie intere divorava allor.
Non dalla macchia a notte o a dubbia mane,
In pien meriggio, al suon delle campane,
Dagli alti merli e sull’aperto pian
Si ferivano a mille; infin che, altero
De’ falli nostri, il vigile straniero,
Venne e legò le parricide man.
L’odio, miseri noi, l’odio ci ha sfatti:
Alla febbre de’ rabidi misfatti
Il letargo seguì de’ turpi amor’.
Scuola ti sia l’esempio: e dona a noi
Memore pianto. Nè scordarti puoi
Ch’italo sangue a te batte nel cuor.
Sempre Italia sarai. Sento venire
Di versi un armonia, ch’al mio partire
Fra i poggi e l’acque di Bastia volò.
Puro così d’Arquà sulle pendici,
Così de’ cedri tuoi nelle felici
Aure, Benaco, l’usignuol cantò.
Segui a più alta via, dolce poeta:
Ne’ tuoi fratelli generosa e queta
Spira col canto un’armonia d’amor.
Me di nuovi dolor’ lieto desio
Altrove chiama. Austera Isola, addio:
Non obblïare il profugo cantor.
Sai di che schietto amor, primo, t’amai;
Con che libera gioia ringraziai
De’ tuoi mari e de’ cieli il bel seren:
E udii le oranti vespertine squille
Di poggio in poggio, e le sospese ville
Vidi, o posate alla convalle in sen;
E del nembo fuggii nelle tue grotte
Lo scroscio; e corse giù per vie trarotte
O su tremuli ponti agile il piè.
E côlsi la volante poesia
Di bocca alle tue donne: e l’armonia
Di lor canzoni ne verrà con me,
Grato dono all’Italia. Intesi il pianto,
Forte e simile a modulato canto,
Della sorella ch’alle Assise invan
Chiedea vendetta del fratel tradito:
Visitai dentro al carcere il bandito,
Strinsi, confesso, la macchiata man.
E quando al fin de’ miei pensati guai
Vicino esser credea, raccomandai
Potesser le ignorate ossa posar
Al Borgo, là dov’Ombre armate intorno
Ai ben difesi tetti errano, e il corno
Paion, che a guerra inciti, ansie bramar.
Ombre italiche siete. E spesso a sera
Per la bruna onda mute in lunga schiera
Cercar vi vidi con materno amor
D’Italia i liti. Nel natìo soggiorno
Tornate, o benedette: avrete un giorno
Grande d’affetti e di preghiere onor.
1839.