Rut - Edizione digitale XMLcompiled byMaria Federica CartenìCarte Tommaseo Online2025
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Carte d'autore onlinePoesieTommaseo, NiccolòSuccessori Le MonnierFirenze1872Trascrizione e revisione testiMaria Federica CartenìClaudio LupinuMarcatura XML testiMaria Federica CartenìManuela FerraroCodifica XML automatica estratta da WCM-BDGiovanni Salucci - MRX srlCoordinamento scientificoSimone Magherini
Rut
I.
Quando non c’eran re, ma si reggevaA giudici la gente d’Israello,Venne la fame; e il popolo gemeva,E più crudel che morte era il flagello.Allora un uom che in Betelèm viveva,Prese la moglie e i figli, ed un fardelloFe’ delle poche sue povere cose;E nella terra di Moàb si pose.Incominciava all’umile famigliaEsser benigna la sede novella;Quando Iddio, che a suo senno e dona e piglia,Elimelecco a’ suoi riposi appella.Piange Noemme; e seco si consiglia,Come prima potrà la poverella,Di far ritorno, permettente Iddio,Co’ due figliuoli al suo nido natìo.Chelionne un de’ figli, ed al minoreDi Maalon il nome imposto avièno.Cresceva in lor de’ vergini anni il fiore,E la bontà del cor crescea non meno.Orfa, l’ardente, in un pose l’amore;Rut, la tacente dal guardo sereno,Dell’altro accolse le timide voglie,E consentì la madre, e fu sua moglie.Visser dieci anni le due coppie in pace,Che, come dieci mesi, eran passati:Ed ecco in pochi dì morbo rapaceQuegli unanimi amor fe’ sconsolati.Noemme si riman, come a Dio piace,Senza il marito e senza i dolci nati;Se non che la conforta il mesto amoreDelle deserte sue docili nuore.Indi a poco Noemme udì la famaChe in terra d’Israello alfin le annateVolgean migliori, e risentì la bramaDelle contrade da’ prim’anni amate.E a quelle due che, venerata, ell’ama,Che non voleano, in quella tarda etateCosì soletta, lasciarla partire,Ma, parte almen di via, seco venire,«Giunte al confin, — dicea, — ci lasceremo.» —Rut le si offerse prima a compagnia;E pronta allor soggiunse Orfa: «verremo;» —E le tre donne si misero in via.E quando fûro in sul confine estremoCh’Israel dalle genti dipartia,Dice Noemme con lagrime pie:«Tempo è che ci stacchiam, figliuole mie.Ite alla casa del vostro riposo,Presso alla madre vostra: io spero e precoChe il Signor sia con voi così pietosoCome voi foste co’ miei cari e meco;E vi provvegga di fidato sposo,Che i vostri dì passiate in pace seco.» —Così, benedicendo, le abbracciavaCon le braccia tremanti, e le baciava.Ma quelle pie con pianto e con parole:«Teco verremo al tuo luogo natio.» —Ella dicea: «tornate, o mie figliuole:Perchè venir vorreste al popol mio?Vedete, lassa, ch’io non ho più prole,Nè marito promettervi poss’io:Nè sperar posso che co’ lieti giorniLa vita coniugale a me ritorni.Nel volger d’una notte potessi ancoE concepire e partorir figliuoli,Sin che crescan per voi, non ci vuol manco,Figliuole mie, che sette e sette soli.E prima avreste il crin quasi che biancoChe il giorno delle nozze vi consoli.Or non vogliate che più oltre, o buone,Io del vostro soffrir sia testimone;Il qual m’accôra più che il dolor mio.Reggerò meglio sola alla tempestaDelle percosse che la man di DioRaddoppia in sulla mia canuta testa.» —Orfa piange, e la lascia, ed al natioLuogo si torna al fin soletta e mesta.L’altra, che al pianto e a’ baci era men molle,Con la suocera sua restar si volle.Noemme allor le dice: «Orfa è tornataPresso al suo parentado ed a’ suoi Dei:Or segui i passi della tua cognata,Figliuola mia diletta, e va con lei.» —Ma Rut, con brama timida e accorata,«Non isgradir, le dice, i preghi miei.Il popol tuo fia, se consenti, il mio,E il Dio de’ padri tuoi, madre, il mio Dio.Non vo’ lasciarti, non mi vo’ partire;Ma, dove che il tuo passo volgerai,Prego, se non ti spiace, anch’io venire,Riposarmi ove tu riposerai.E quella terra mi vedrà morireOve tu gli occhi lassi chiusi avrai.Iddio mi vede il cor: la morte solaPotrà staccarti dalla tua figliuola.» —Vistala ferma in suo proponimento:«Andiam: sia come a te, come a Dio piace.» —Si misero in cammino a passo lentoCon gioia mesta e con pensosa pace.Nel veder la sua casa, un turbamentoDolce la donna assal, che piange e tace.E, in veder lei, le donne di Betlemme,«Ve’, ve’! dicean, quest’è quella Noemme,Quella Noemme che fu già sì bella,Del buono Elimelech buona consorte.» —Per tutta la città se ne favella,Com’ella entrò le desïate porte.«Non rammentate a me l’età novella,Vecchia dal duol prostrata e dalla morte.Lasciai co’ miei diletti il mio soggiorno;Or, come piace a Dio, sola ritorno.Non mi chiamate (povera meschina)Con lieti nomi, che a sentir m’accora.Forte al suol mi sbattè la man divina,E i miei patir’ non son finiti ancora.» —Venne così Noemme pellegrinaDa terra di Moàb con Rut sua nuora.Quando fûr giunte in Betelèm, correaLa stagion che il prim’orzo si mietea.
II.
Signor di terre e di ricchezza assai,Booz d’Elimelecco era parente.Disse la nuora: «madre, se mi daiLicenza, i’ me n’andrò solettamenteIn qualche campo a spigolar, se maiDio mi mandi a un signor buono e clemente,Al quale il mio venir noia non dia.» —E la suocera a lei: «va, figlia mia.» —Ell’esce; e vien le spighe raccattandoDa’ lassi mietitor lasciate in via.Or quel podere ov’ella spigolando,Rossa nel volto e tacita, venìa,È di Booz, il sere venerando,Ch’allora allor da Betelemme uscia.Giunge, e, «Dio sia con voi,» dice, «fratelli;» —«Ti benedica Iddio,» — rispondon quelli.Ora al capo dell’opre il buon signore,«Chi è, domanda, questa giovanetta?» —«La Moabite ell’è, che per amoreSeguì tra noi la suocera diletta;Che le spighe fuggite al mietitoreChiese raccôrre: e al suo lavor s’affretta,Tanto che, da stamane infino ad ora,A casa sua non è tornata ancora.» —Dice Booz a lei: «figliuola, ascolta:Non vo’ che a spigolar fuori di questoCampo tu vada: e qui la mèsse è molta,E star con l’altre mie fanciulle, onesto.Tu segui i mietitor nella ricolta:E intendo che nessun ti sia molesto.E va, s’hai sete, a quelle secchie e béiDell’acqua pura che disseta i miei.» —Ella, chinata un poco e gli occhi bassi,Dice: «qual grazia in me, qual merito era,Perchè tu, signor mio, così degnassiDi riconoscer me, donna straniera?» —E’ la riguarda alquanto, e muto stassi;Indi le dice: «i’ho novella veraDi quanto a te seguì poi che la morteTi tolse, o giovinetta, il tuo consorte;E come, per seguir la sventurataSuocera tua Noemme, abbandonastiI parenti e la terra ove sei nata,E in mezzo a gente sconosciuta entrasti.La buona opra ti sia rimeritataDa quel Signore a cui t’accomandasti,Dal gran Dio d’Israel, dall’ImmortaleChe te raccoglie sotto le sue ale.» —La donna: «è tutta tua mercè, signore,Che mi conforti di sì dolce suono,E d’un’ancella umìl favelli al cuore,Chè delle fanti tue pari non sono.» —«Tu, quando più del sol pesa l’ardore,Sull’ora del mangiar, disse quel buono,Abbi del nostro pane e ti satolla,E la tua fetta nell’aceto immolla.» —Ella si pose a’ mietitori accanto,La sua polenda le fu messa innanzi,E ne mangiò la poveretta tantoChe fu satolla, e ne serbò gli avanzi.Poi si rimise a lavorar con quantoDi studio verginal fatto avea dianzi:E, nell’aria degli occhi e della testa,Men turbata parea, ma più modesta.«Lasciate pur (diceva all’opre il sere)Che, quanto può con man, venga e si tolga.Lasciatevene apposta anche cadereAlcune spighe; e che nessun si volga:Fate le viste di non v’avvedere;Ch’ella senza arrossir le si raccolga.» —Così l’intero dì china si tenneA spigolar, sinché la sera venne.Poi battè con un picciol correggiatoIl suo mucchietto; e, a misurar, rilevaChe uno staio n’avea raggranellato,E contenta in ispalla lo si leva.L’orzo a Noemme, e il pan ch’avea serbato,Lieta recò: la vecchia a lei diceva:«Dove hai tu fatto sì buona fatica?A chi t’ebbe pietà, Dio benedica.» —Ella racconta chi le diè ricetto,E come le parlò benignamente.E la suocera allor: «sia benedetto!I vivi amò d’amor di buon parente,E adesso a’ nostri morti egli ha rispetto;Perch’egli è nato della nostra gente.» —E Rut: «per quanto c’è da mieter biada,Non vuol che altrove a spigolare io vada.» —Dice Noemme allora: «è meglio ormai,Che con le fanti sue, figlia, t’accosti.Certo, in altro poder non troveraiGente che sian per te sì ben disposti.» —Ella, infin che tagliati, e in barche assaiNon fûro i grani del poder composti,A spigolar si stette in quel podere;E si facea da tutti benvolere.La giovanetta a casa era tornataUna sera; e Noemme a dir le prese:«I’bramerei che tu sia consolata,Figliuola, e trovi ben nel mio paese.Quegli che con le sue fanti se’ stataFinora, e che ti fu tanto cortese,Egli è, come tu sai, nostro congiunto;E l’orzo tirerà stanotte appunto.Dunque odora i capei di schietti unguenti,E trascegli il color della più gaiaGonnella, e i più puliti vestimentiChe tu hai, poveretta; e va nell’aia.Va cheta cheta, sì ch’alle sue gentiAlcun del tuo venir segno non paia.Quando il mangiare e il bere avran finito,Che il signore a dormir ne sarà ito;E tu pon’ mente al luogo ove il vedraiMettersi, e va, come addormito il vedi,E il pallio suo da’ piè solleverai,Cheta a giacer te gli porrai dappiedi;Poi di sua bocca il suo pensiero udrai.» —E Rut a lei: «farò come richiedi.» —E fece, ubbidïente, in ogni cosaIl voler della vecchia affettüosa.
III.
Mangiò Booz e bevve; e, non già brillo,Ma gaio, e in cor pensando a Dio, si gettaPresso le manne, e s’addormì tranquillo:Venne pian piano allor la poveretta,Prese il pallio tremando, e discoprillo,E, senza lui toccar, dappiè s’assetta.Era la notte al mezzo e molto scura:Booz, riscosso, a un tratto ebbe paura.Visto una donna che non gli favella,Si maraviglia; e «chi se’ tu?» — domanda.«I’ mi son Rut, la tua ùmile ancella,Che a te, congiunto nostro, s’accomanda,Perchè sul capo di lei meschinellaPietoso il pallio tuo levi ed ispanda.» —Ed ei: «ti benedica Iddio Signore:Gran bontà già facesti, ed or maggiore.Che non badasti a ricchi o a poverettiNell’età ch’è più credula ed ardente.Or non vo’, figlia mia, che tu sospetti;Il tuo desìo farò compiutamente.Làsciati andare a’ tuoi bennati affetti;Perchè, certo son io, tutta la genteCh’è nella mia città, vede e sa bene,Figlia mia, che tu se’ donna dabbene.Congiunto io son di sangue a te, nol nego;Ma un altro abbiam che t’è più stretto ancora.Nella pace d’Iddio dormi, ti prego;Poi, come appaia un primo albor d’aurora,Andremo, e s’e’ ti vuole, a lui ti lego;Se no, t’avrei per mia senza dimora.Testimon del mio cuore Iddio mi sia:Dormi in pace a doman, figliuola mia.» —Ella, contenta, al sonno si compone:E s’alzò quando il ciel non anco albeggia,Che non ben si conoscon le persone:«Va, — le diss’egli, — e che nessun ti veggia.» —E spiega il pallio a terra, e in quello poneSei moggia d’orzo, e con una correggiaStringe le cocche, e gliel pone in ispalle:Ella sen va per un ombroso calle.Entra in Betlemme; e, trepidando, pronta,«Dimmi, figliuola mia, quel che facesti,» —La suocera domanda: ella raccontaGli atti dell’uomo e i suoi parlari onesti.«Queste sei moggia poi d’orzo e’ mi conta.Buono è ’l consiglio, o madre, che tu desti.» —E quella: «aspetta, e tu vedrai ch’e’ vuoleTutte, o figlia, adempir le sue parole.» —IV.
Ma Booz, come l’alba in ciel sorrise,Verso la porta della terra ascese,E quel congiunto ad aspettar si mise:Videi, chiamollo a nome, e lo richieseChe si sedesse a udire: egli s’assise;E il sere allor dieci anzïani preseDella città, che testimon’ li vuole;E disse innanzi a lor queste parole:«Noemme a vender pensa il poderettoChe fu d’Elimelech nostro parente.Questo intendo e vogl’io che ti sia dettoQui nel cospetto a questa degna gente.Io che il congiunto, dopo te, più strettoLe son, t’invito a dir liberamenteSe ’l vuoi, siccome è tuo diritto, avere.» —L’altro risponde: «io compero il podere.» —«Se il poder di Noemme acquistar vuoi,Abbiti ancor, siccome usanza chiede,Rut, che fu moglie all’un de’ figli suoi;Ravviva il nome a cui se’ fatto erede.» —E quegli: «altra formar (tu meglio il puoi),La famiglia ch’i’ ho non mi concede.Fa pur dunque tuo pro del titol mio;Chè in questo il mio consente al suo desìo.» —Da tempi antichi in Israello usavaChe, tra congiunti se passar si facciaD’uno in altro il diritto, uom si slegavaIl suo calzare a’ testimoni in faccia.«Slaccia dunque il calzar, se non ti grava,» —Booz disse al congiunto, e quei lo slaccia.Allora il sere, agli anzian’ rivoltoE al popol della terra intorno accolto:«Popol che siete qui, datemi retta:Di Maalòn fo mia l’ereditate,E Rut mi prendo in mia sposa diletta,Acciocchè viva nella mia cittateIl lignaggio di lei, se Dio permetta;E di ciò testimon’ voglio che siate.» —Allora il popol tutto, e que ’vecchioniRisposero: «di ciò siam testimoni.La donna ch’entra nella tua famiglia,Faccia il Signor che sia come Rachele,E come di Labàn la maggior figlia,Ch’edificàr la casa d’Israele.Sia di Betlemme esempio e maraviglia,E in Èfrata d’onor specchio fedele.Degna di Giuda la semenza sia,Che da lei, benedetta, Iddio ti dia.» —Presesi dunque Rut, la giovanetta,D’Èfrata il sere in moglie, e con lei giacque.Presto Iddio consolò la poveretta,Che concepette, ed un figliuol le nacque:E le donne alla suocera diletta:«Benedetto il Signor, che dar Gli piacqueAlla tua casa un successor novello,Che rinfreschi il tuo nome in Israello.E benedetto, che tanta dolcezzaVersa alla fine su’ tuoi lunghi duoli.Avrai chi guardi almen la tua vecchiezza,E te di cara compagnia consoli.Della tua nuora avrai la tenerezza,Molto maggior che di molti figliuoli.» —Così congratulavano a Noemme,Con molto dir, le donne di Betlemme.E dicean tutti: «è nato un figliuolettoA Noemme;» — e Noemme ne godea:E lo portava in sen con grande affetto,E da balia e da madre gli facea.Obèd posero nome a lui ch’elettoGerme d’eletta gente esser dovea;Padre d’Isài, del qual, come a Dio piacque,Il gran re d’Israel, Dàvide nacque.