Voluttà e rimorso. Elena. (Esametri)
Allor che ’l fremito de la pugna da l’ardua torre
Ascolto, al sommo del petto il core mi balza,
E dico: ahi quanti da la ferrea destra di Marte
Per te tormenti sostengono, svergognata,
Troia di destrieri domitrice e i nobili Achei!
Per te di vedove consorti e d’orfana prole,
Fùnebre, ne’ tetti, ne’ templi corre ululato,
Che ’l giovane ancora genitore e il dolce marito
Veggono travolti rotolar ne la polvere, e pianto
E laï versando sul petto recente ferito,
Reggono con mano la cara cervice cadente.
Ma de gli estinti e de’ gementi ti fugge la vista
Se Paride ammiri tornar da la strage cruenta
Incolume. E te, da lungi accennante, saluta;
E il sangue appreso e ’l tintinno de l’arme sonanti
Lo fan più bello. Ma tu l’ancelle chiomate
Sollecita appelli, gli apprestino i caldi lavacri.
E’ sale a l’alte case: e, ancor di lorìca gravato,
I’ me gli stringo, com’ellera lussurïante
A querce altera frondente di verde novello;
E la man trepida, le ondanti creste de l’elmo
Posate a terra, il bel crine di polvere sparso
Carezza, e terge il sudor de le floride guance.
Ahi! ma le abondanti dal petto care parole
Un nume ignoto raffredda, e la voce rimansi
Stretta alle fauci nel nome di dolce marito.
E quando, in forte amplesso commista d’amore,
Il cor segreto tutto negli ignei baci
Si sface, nomarlo la bocca ansante ricusa
Uom mio. Deh quanto con lacrime t’invïdiai,
Te che al compresso mio duol compiangi tacendo,
Figlia di Priamo, bella d’Elicáone sposa,
Laódice! A te di pura dolcezza rigati
Gli amplessi, a te di tristo rossore la fronte
Immacolata. E tu, splendor de le troadi ninfe,
Oh tu cui ’l sacro Priamo parla riverente,
Andròmaca, allor che incedi a Dïana simìle,
Bella d’odorato peplo e d’argentei veli,
A te d’intorno un sommesso d’amore susurro
Corre, e l’ùmil volgo s’arrestano contemplando.
Perchè la vista di quel tuo dolce rosato
Pallor virgineo e de’ semplici sguardi soavi
Regger non posso? Perchè tua voce modesta,
Qual d’usignolo ch’entro a fragrante roseto
Canta sul primo tremolar de le vergini stelle,
Mi suona nel petto quasi suon di triste novella?
Fuggir m’è forza e della magion ne’ recessi
Celar la cura. Quivi Etra di Pìtteo nata,
E Clìmene fida, ridenti ancelle, beate
Ancor del tenero fior dell’improvvida vita,
A me pensosa, tessente le lucide tele,
Trascorrer fanno talor su la china pupilla
Un mesto riso. Ma quando la lor giovinetta
Beltà ragguardo, mi toma söave dinanzi
Di te che ’n Argo le morbide tele sedevi
Meco tessendo, cara nutrice, l’imago
Materna. E Giuno mi mette ne l’intimo petto
De’ patrii tetti, de’ non più visti parenti,
E di chi primo mi fe’ sua, dolce la brama.
Ma come, ahi misera! de le donne argive lo sguardo,
O del cognato, o di te soffrire potrei,
Figlia? Quale a me, di doglie tante ministra,
Qual fôra l’amplesso, la voce de l’inclito Atride?
Stolta! e tu pensi ch’e’ dorma fredde le notti,
Di te sognando, Meneläo di Marte l’amico,
Nè tenere ancelle, all’incendio di predata
Città sottratte, dono di nobili Achei,
Di giovane amplesso l’allegrino ? Tale d’amori
Ponesti a’ ciechi mortali immobile fato
Tu, Dea, che a Gnido sorridi ed a l’alta Citera.
Di Giove l’arcano senno a te, lieta Afrodìte,
Serve; e la madre mia l’attesta, e i forti gemelli,
Castore del corso mastro, Polluce de l’armi.
E tu l’attesti, dell’inclito Bellerofonte
Nata, ch’a l’Egioco confusa in amore, creasti
Il simile a’ numi Sarpedone, Laodamìa.
Queste ne l’intimo core mi mormora blande loquele
La santa Citerèa, ch’a me de le cure latenti
Sgombra da l’immoto pensiere la pallida nube.
Talor la veggo spuntar ne’ languidi sogni,
Come da l’Oceano i raï d’Espero dolce-tremanti;
E al seno, ed al passo leggier quasi voi di colomba,
La Dea conosco. Ridesta, in amor mi si volge
L’infiammata anima; e al chiaror de la luce novella
Che su i torniti letti risplende, lo veggo,
I be’ crin, sulla rosea cervice fluenti
(Quale infra’ lauri d’Eürota il Cinzio nume,
O quale in selva il bellissimo Endimïone),
Quel per cui Priamo sua figlia dolce mi noma.
Dal suo respiro i’ pendo, e me dico beata
Ch’unica fra tutte l’argive e le troadi ninfe
Orno gli odorati talami di tale marito.
E se di veli ondeggianti e di splendido peplo
Bella oltre all’uso i’ paio, e più vivida fiamma
Per me ’l pensiero comprendegli, grazie vêr te
Unqua più calde non salsero, lieta Afrodite.
Ma nè i diletti nè ’l duol del core profondo
Ho cui narrarli: nè qui di conscio riso
Son dati a me misera i conforti, o di conscio lutto.
Qual chi per selva di pruneti orrida e d’angui
Cerca smarrito calle e vestigïa note,
I’ non rinvengo me stessa. E stranïa vivo,
Strania vivrommi finché vecchiaia mi colga
Squallida ne’ tetti per me di floride vite
Orbati. Lutto a’ presenti, infame sarai
Favola a’ venturi. Deh morte piaciuta mi fosse
Anzi che ’l talamo antico e i diletti parenti
Lasciar! Deh slanciata m’avesse la negra procella
Su i ripidi scogli o ne la spuma de l’onde sonanti!