Una serva
(Il soggetto non è storico, ma conforme alla storia de’ tempi; che non sono, come ognun vede, quelli del San Zanobi vescovo di Firenze.)
Verso il monte ascendean dalla pianura
Che lungo il tuo bel fiume, Arno, dechina.
L’ombra involvea le falde, in sull’altura
L’ aure godean la luce mattutina.
Or appariano ed or tra la verzura
Si nascondean, la salmodia divina
Cantando a due a due la turba pia;
E il vescovo Zanobi li seguia.
Benedicean la terra, e buona annata
Chiedeva il pio colono al buon Signore.
La primavera sorridea beata,
E tutta la campagna era un amore;
E, di pioggie recenti consolata,
Si rinverdiva nell’amato umore
Ogni ùmil fronda, ogni foglia novella,
E dire un inno a Dio pareva anch’ella.
Nel pensar che i figli vostri
Fieno, o Padre, liberati,
Si sentîro i pensier’ nostri
Consolati.
Sulla lingua i lieti accenti
Abbondâr dal cuore espressi.
Fu il Signor, diran le genti,
Grande in essi.
Il Signor fu grande in noi:
La letizia nostra è piena.
Togli, o Padre, i cari tuoi
Di catena.
Il torrente innondatore
L’ire omai del flutto ha quete.
L’uom che semina in dolore,
Gioia miete.
Mesti andavan seminando
Lor sementa: ed or verranno,
E, i manipoli portando,
Gioiranno.
Seguitavan chiamando in lor preghiera,
Angeli, il vostro nome, e il tuo, Maria;
E il Battista, pensosa anima austera,
E tutti che sperâr certo il Messia;
E gl’Innocenti, pargoletta schiera;
E i Dodici da Pier fino a Mattia;
E i Romiti, e i Dottor’ di sacre cose,
E i Martiri, e le Donne affettuose.
Alto levai
Gli occhi, e pregai,
A te che in ciel
Dimore,
Come famiglio
Tien fiso il ciglio
Al suo fedel
Signore.
Come servente
Guarda umilmente
La donna sua
Ch’ell’ama;
Il nostro amore
Guarda, o Signore,
La faccia tua
Con brama.
Pietà, buon Dio,
L’onta c’empio
D’un duolo acerbo
A morte.
D’onta e di pena
Nostr’alma è piena,
Scherno al superbo
E al forte.
Giungeano a passo lento in cima al colle
Ove mostra sue croci e biancheggiante
La cattedral di Fiesole s’estolle
Tra ’l verde lieto delle folte piante.
Inginocchion sulle sudate zolle
Stavan di molte donne al tempio innante:
E ve n’avea di condizion servile,
Mancipii del palazzo vescovile.
Una, che, nuda il piè, pallida il viso,
Rossa i labbri, e del corpo estenuata,
Gli occhi di mesta pace, e d’un sorriso
Di pazïente amor le labbra ornata,
Con le man giunte, al ciel guardando fiso,
Pregava basso con voce accorata,
E, tra nero e sanguigno, avea suggello,
Sovra le ciglia, di servil flagello,
Al vescovo Zanobi diè negli occhi,
Mentre la man tendea benedicente:
Poi dentro in chiesa videla in ginocchi,
Romita in sè, pregar ferventemente.
Non può, vedendo, che pietà nol tocchi:
Così, se in acqua od in vetro lucente
Raggio penètra, il suo baglior divide,
E in modesti color’ vario sorride.
Compiuto delle preci il ministero,
Il vescovo Zanobi per lei manda.
Nuovi dolor’ nel trepido pensiero
Volge l’afflitta, e a Dio si raccomanda.
Egli con volto tra mite ed austero
La guarda appena, e, — chi se’ tu? —domanda.
Dice la giovanetta: — i’ son lucchese,
Senza padre nè madre; e ho nome Agnese. —
— Forse di servo nata? — Oh no, signore:
Ingenua, grazie a Dio, la stirpe mia.
E mio padre era un povero aratore
Di campicel non suo, lungo la via
Che mette alla città. Quando il Signore
Ci percosse dell’aspra carestia;
E’ patì tanto, e sì le forze afflitte
Per campar noi logrò, che ne moritte. —
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Tutta nel suo pensier si stette alquanto;
Egli pietoso in lei lo sguardo fisse:
— Segui, infelice. - Ed ella: - orfano, accanto...—
E arrossiva e piangeva: e più non disse.
— Orfano, tu dicevi? Accheta il pianto;
Dimmi il nuovo dolor che ti trafisse.
Parli a chi ti compiange: apri il tuo cuore:
Non il signor, t’ascolta il tuo Pastore. —
— Orfano, accanto al nostro poderetto,
Un giovanetto povero vivea. —
Qui si tacque: e ’l Pastor, pio nell’aspetto,
— Segui, figliuola. — Agnese rispondea:
«La madre e il padre mio, quel giovanetto
Chiamavan sempre all’opre: io ne godea.
Come figliuolo suo l’amavan quelli,
E no’ due ci amavan come fratelli.
Quando vide portarsi in chiesa il padre,
Non fu men alto il suo del nostro strido.
Poscia de’ suoi sudor’ me con mia madre
Mantenea, di dì ’n dì sempre più fido.
Ma la fame crescea. Quando le squadre
Sotto l’insegna dell’Augusto Guido,
Di marchigiana gente e di francese
E di toscana nostra, armarsi intese;
Pensò che meglio con l’opra guerriera
(Misere noi!) ci avria fornito un pane;
E ci lasciò solette a primavera,
Per far la guerra in contrade lontane.
E combattè nella battaglia fiera
Dove tedesche genti e friulane
Fuggiro, è fama, come al vento nebbia,
Là presso un fiume che si chiama Trebbia.
Quando si seppe noi della vittoria,
Ah che gioioso dì, signor, fu quello!
— Egli riviene a noi, nè senza gloria:
Lo rivedrem — dicevo — il mio fratello. —
I’ vidi ritornar (fiera memoria!)
Ricchi di preda que’ del suo drappello,
Empiendo i campi e il ciel di lieti gridi
Che mi ferìano il cor: ma lui non vidi.
Seppi che, nel fervor della battaglia,
Toccata il prode non avea ferita:
Ma tra’ fuggenti, misero! si scaglia,
E, stretto in mezzo a lor, perdè la vita.
A noi due poverette, orbe in gramaglia,
La gente, a’ mali nostri impietosita,
Povera anch’essa, alcun soccorso dava;
Ma la fame crudel continuava.
E mia madre.... Or non più. Che importa a voi
Di me meschina e della mia sventura? —
— Segui, diss’egli, e narra i dolor’ tuoi.
Anche in me le sue piaghe aprì natura. —
Tacque ella un poco, lagrimando; e poi:
— Dal tapinar della sua crëatura,
Più che dal suo, mia madre consumata,
Dopo molto languir cadde malata.
Per procacciarle un po’ di pane asciutto,
Sola nel letto lasciarla i’ dovea.
Ella metteasi inginocchioni, e tutto
Quel tempo lo pregava e lo piangea.
Queste parole: benedetto il frutto
Delle viscere tue, sempre dicea:
Ora, o Madre di Dio, per noi meschine
Adesso e all’ora della nostra fine.
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Una mattina i’ esco, in sulla via
Mi metto, e tutto il santo giorno attendo
Chi un poco di pan per lei mi dia;
Torno la sera a lei, per man la prendo:
E, — piuttosto, le dico, o madre mia,
Che vedervi languir, vado e mi vendo.
Avremo almen così due soldi d’oro,
Che, se mi campan voi, sono un tesoro.—
La derelitta le tremanti braccia
Mi cinge al collo singhiozzando, e stretta
Con quanta forza avea, stretta m’abbraccia:
— Il buon Gesù, dicendo, o benedetta,
Premio a tua carità trovar ti faccia.
I’ sono in fine. Oh non lasciarmi! aspetta
Tanto che la mia ultima parola
Spiri nel bacio della mia figliuola. —
Ma volle almen Gesù farle più lieve
L’ultimo passo con alcun conforto.
Venne il pievan della vicina pieve
A confortarla (il nostro era già morto);
E, dalla sua bontà scaltrito, in breve
Si fu della miseria nostra accorto.
Dar le potetti un po’di cibo, ed anche
Con vino inumidir le labbra bianche.
Dicendo, — Iddio rimanga teco, Agnese, —
Entrò soavemente in agonia:
E come un sonno languido la prese,
E spirò mormorando Ave Maria.
Ma la benedizion dal ciel non scese
Su me con il tuo prego, o madre mia! —
E il vescovo: — figliuola, allor più pio
È quand’appar vie più sdegnato, Iddio.
Crebbe la fame (non è vero?), ed hai
Piegata al giogo la libera fronte. —
— Mia madre e mie sorelle erano omai
Nudità, fame, sete, insidie ed onte.
Senza pianto il terren caro lasciai,
E venni alla ventura a questo monte:
E servir chiesi, e nelle forme usate
Toglier lasciâmi la mia libertate.
La moneta, mio prezzo, se n’è ita
In suffragio dell’anima di lei.
Nuova degli usi, fuor di me, sfinita,
Mal compir le servili opre potei.
Quando vide il signor che di mia vita
Troppo misera usura gli darei,
Mi mandò sul mercato; e compratore
Nuovo il castaldo vostro ebbi, signore.»
— Io gli ho pur, disse il vescovo, interdetto
Verso i miei servi usar punto angheria:
E qualcuno comprar gliene permetto
Perch’abbian qui più mite signoria.
Di lividi segnato alcun soggetto
Di Zanobi Pastor non vo’ che sia. —
Agnese allor: — degna di pena, o buono
Signor, ben più che non crediate, io sono.
Una stanca tristezza obblivïosa
Mi prende; e in mezzo del lavor mi seggio,
E guardo il cielo e piango, e in dolorosa
Calma, fremente di pensier’, vaneggio.
Al castaldo, che un dì non so che cosa
Mi rimbrottava fra sdegno e dileggio,
Io, del servil tacere ancor non dotta,
Risposi male, e n’ebbi questa botta.—
— Soffri ’l gastigo e il nuovo stato in pace,
Disse Zanobi, e con Dio ti consola.
Se non puoi la fatica, o s’altri audace
Onta ti fa, ricorri a me, figliuola. —
Ella, lo sguardo fiso a terra, tace;
Poi, quasi vergognando, a lui s’invola.
Segue con gli occhi il vescovo pietoso
La già lontana, e si riman pensoso.
Da quel dì, lei venir delle più pronte
Alla chiesa, e in un canto orar vedea,
E dal seren della percossa fronte
Sparir la tetra margine godea.
Se s’incontrava in lei scendendo il monte,
Brevi parole umane le dicea:
Ma con tutti del par buono e cortese
Servi e serve parea, che con Agnese.
La s’ammalò sul cominciar d’agosto,
Men dal lavor che da’ gran caldi stanca.
Ei dell’assenza sua s’avvide tosto:
E, — qualchedun di voi, disse, qui manca. —
Poiché del mal di lei gli fu risposto,
Con voce incerta, che parea pur franca,
— Se infermo, comandò, servo od ancella
Cade de’ miei, ne vo’ saper novella.—
Ed al castaldo poi: — forse l’avranno
L’opre ingiunte da te stanca e accaldata. —
— Lavorò come l’altre. — E non ve n’ hanno
Altre con febbre ? — Ell’è sola malata. —
— Fu, più ch’a tutte, a lei crudel quest’ anno:
Con carità vogl’io che sia trattata.
Non che tra l’altre e lei ponghiate guari
Divario: a tutti la pietà sia pari. —
Di lei gli cale, e al mal di lei ripensa
Con più molle pietà che non vorrebbe.
E di saper sue nuove ha voglia intensa;
E, di lei chiesto un dì, poi gli rincrebbe.
E tra’ libri, ne’ campi, in chiesa, a mensa,
Sente un tumulto in cuor che mai non ebbe.
A passeggiar leggendo esce una sera
Verso la casa ove sapea ch’ell’era.
Quasi impensato, un prepotente affetto
Condusse a quella stanza i passi suoi.
Com’ella il vide: — oh siate benedetto,
Che pur vi tocca un po’ cura di noi! —
Indi lo prega le si accosti al letto,
E, — vorrei, dice, confessarmi a voi. —
Usciron tutti: ed ei l’uscio socchiuso
Aperse, e accanto a lei siede confuso;
Che le confessa, basso lagrimando,
Suoi pochi falli e suoi molti dolori:
E della madre gli vien raccontando,
E de’ sepolti ed innocenti amori.
Il vescovo dicea: — ti raccomando
Non isviar la mente in grati errori.
Figlia, più gravi, quanto men sentite,
Del memore desio son le ferite. —
— Come schiantar la rimembranza infitta
Dal dolor nuovo e dall’antico affetto?
Vedova pria che moglie, derelitta,
O di servile amor misero oggetto. —
— Chiedi nuovi pensier’: chiedili, afflitta;
E Dio te li farà nascere in petto. —
— La bontà vostra sola il pensier mio
Ristora. — Or ben, grazie ne rendi a Dio.
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Per me prega: e se cosa ti bisogni,
Chiedi, e averai di me più che padrone. —
L’assolve, ed esce; e par che si vergogni
Delle parole che le disse buone.
Spesso al dolor di lei pensa, e ne’ sogni
La vede e nella calda orazïone:
Sana la prega; ed è ne’ desir’ sui
Ch’ella richiegga confessarsi a lui.
Ciò più volte ella chiese. E più la udiva,
E men se ne partia di sè contento.
La smania in lei del pianto era più viva,
In lui più fondo e amato il turbamento.
E in rimirarla un lungo ardor sentiva,
Una pietà che gli facea spavento.
Un dì, mentre ch’egli esce, ella di grata
Tenerezza innocente inebrïata,
Tese le man’ vêr lui fuori del letto,
E fuor con mezza la persona s’erse,
E le giovani braccia e il giovin petto,
Mezzo velato da’ capei, scoverse.
Quasi a suon di battaglia, a quell’aspetto
Raccoglie il pio le sue virtù disperse,
E fugge: ella rimase a tese braccia;
Poi con le aperte man coprì la faccia.
E, più che di peccato, vergognosa
È di quell’atto, e dentro si tormenta;
E richiamare il vescovo non osa
Che la confessi, e il guardo suo paventa.
E, mezzo inferma ancor, desiderosa
D’uscir si mostra; ed esce, ed è contenta
Di rivederlo; ed egli la saluta,
E le domanda se sia rïavuta.
I miti soli e la serena brezza
Del primo autunno già la rïavea,
E dagli occhi la calda giovanezza
E dalle gote languido ridea.
Tal, dopo quete pioggie, in sua verdezza
Il crescente arboscello si ricrea,
E dalle foglie trepide rifrange
La luce, e quasi di letizia piange.
Un dì che al bosco, incontro al sol cadente
Inginocchiata, e, gli occhi al ciel, pregava,
E passe foglie l’arbore pendente
E luce ed ombra sovra lei versava;
Ei di lontan la vide, e mestamente
Or il cielo, or la selva, or lei guardava.
Agnese, udito uno stormir, si scosse;
Lo vide, e sorse in piedi e vêr lui mosse;
Che parlar le volea: ma nel sentire
Fruscìo di piedi tra le passe fronde,
Nell’alta selva, senza nulla dire,
Com’uom ch’è colto in fallo, si nasconde.
Non intese il perchè di quel fuggire
L’afflitta, e ne’ pensier’ suoi si confonde:
E, chiesto di parlargli il dì seguente,
Con voce piena del pianto nascente,
Gli dice: — O mio signor, che v’ho fatt’io
Che voi m’odiate ? Se meschina i’ sono,
Deh non siavi in dispetto il grado mio;
E se in cosa peccai, chieggo perdono. —
Ed egli: — Altro pensiero ier mi rapio,
Nè a te badai. — Gli è ver, voi siete buono,
Signor, diss’ella: ma chi è che osserva
La presenza e i dolor’ d’una vil serva? —
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Così se n’esce tra turbata e altera,
Come s’ella signora, ei servo fosse.
Nè mai commessa grave colpa vera
Contra Dio, tanto in lui dolor commosse,
Come adesso l’aver con faccia austera
Viste sue luci umilïate e rosse.
E s’adira e si cruccia, e sì s’affrange
Nella tempesta de’ pensier’, che piange.
Qual chi stende la mano, e di petecchia
Contagïosa il reo gavòcciol senta,
Dubbio del certo male, e si rispecchia
Entro la spera, e con la man ritenta,
E, spaurito, a scappar s’apparecchia
Dall’uncin della morte che lo addenta;
Tal Zanobi. E diceva: — ahi sciagurato,
Non ti nasconder più: tu se’ malato. —
A un’immagin levò di Nostra Donna,
Ch’alta sul letto avea, gli occhi languenti.
Ma sostener non può viso di donna,
Com’occhio infermo i rai del sol ferventi.
E qual chi teme di morir se assonna,
E pur non puote che non s’addormenti;
Tal egli il suo rischio ama, e il suo mal sogna;
Nè del vincente amor più si vergogna.
Talvolta il buon pensier vien poderoso,
Poi, qual suon che digradi, s’allontana,
A que’ dì papa Sergio, a cui Formoso
Rapir volea l’autorità sovrana,
Scelto avea, come in luogo di riposo,
Soggiorno nella Marca di Toscana.
Fu lì lì per mostrar più volte a lui
Il vescovo gl’infermi pensier’ sui;
Ma teme nol riprenda, e al cuor piagato
Troppo crudel rimedio non comande.
Un giorno che, più fosco dell’usato,
Male intender parea le altrui domande,
Gli disse il papa: — tu mi par’ gravato
D’un segreto dolor. — Dolore, e grande
(Il vescovo rispose): ed io vorrei,
Padre, leggeste in fondo a’ pensier’ miei. —
Sergio a lui: — la sua doglia a ciascun preme:
Me pur auge, o figliuol, sospetto e sdegno
De’ miei nemici e nostri, e cura insieme
Dell’alta sede a me commessa indegno. —
Tale risposta al vescovo ripreme
L’affanno dentro, ond’egli il cuore ha pregno.
Però propose non narrar che a Dio
Del pudor le battaglie e del desio.
Ma, come a’ colpi d’implacato acciaro
Grave armatura cede a poco a poco,
E sempre men possente oppon riparo,
E già si smaglia e arrossa in più d’un loco;
Così cede al pensier crudele e caro
Zanobi, e anela al duol siccome a gioco:
E senza più terror, senza consiglio,
Attrae con gli occhi immoti a sè ’l periglio.
Con papa Sergio visitò ’l marchese
Adalberto, e sedette alla sua mensa.
Mentre quant’ha delizie il bel paese,
Quanti ricchezza umana agi dispensa,
Mira, ode, assaggia, al tuo, povera Agnese,
Dolce-arridente lagrimar ripensa;
E quante vede giovani, con pronta
Cura, e quasi materna, a te raffronta.
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Più pensa, e più delle mortali cose
Gl’ingombra il cor la sonnolenta ebbrezza;
E le disperse memorie amorose
Raccoglie dell’ardente giovanezza,
E le rintreccia, e di recenti rose
Quasi un serto ne fa, che punge e olezza.
Or lambe il reo padule, ed or leggiero
Spande l’ali nell’alto, il suo pensiero.
Ma non mai dell’aiuto di Maria
Dispera in cor, nè la final disfatta
Previen colla scorata fantasia;
Sempr’erra, e sempre i grati error’ ritratta.
Qual chi su lieve tavola si stia
In mar sospeso, e l’onda insana il batta,
Sempre il lubrico legno rïafferra,
E guarda ansante alla contesa terra.
Ma poi che il papa alfin si fu partito,
Torna alla greggia sua l’egro Pastore,
Che risolse dell’animo ferito
Disvelar la vergogna a un confessore.
Sceglie un prete, nell’armi incanutito,
Che gli ultim’anni avea sacri al Signore:
E— «a Dio, comincia, agli Angeli, a Maria,
Confesso, e ai Santi, e a te, la colpa mia.
La colpa mia, la colpa mia confesso.» —
E narrò la pietà, l’ignudo seno
Della fanciulla, il guardo mal represso,
E de’ tenui pensier’ l’acre veleno.
— Figliuol mio, dice il prete al genuflesso,
I’ pregherò, perchè non venga meno
A noi l’esempio tuo. Pèntiti; ed io
T’assolvo: in ciel così t’assolva Iddio. —
Più di lunghi consigli o di rampogna
Gli andò diritta al cor quella parola.
Tra ’l timore e il rimorso e la vergogna,
Del non esser più reo pur si consola.
Tale colui che fiero danno sogna,
Che col sonno il terror parte s’invola.
E tal, dopo il fervor della tempesta,
Il mareggiar del lungo fiotto resta
(Pieno ancor del periglio, il navigante
Guarda ora al mare, or alla frale barca):
Tal egli col pensier per tutte quante
Del non percorso error le vie rivarca.
Di pastor, fatto lupo; osceno amante,
Di padre pio; la torba anima cârca
Di gelosie, terror’, corrucci e scorni;
Le notti in pianto, in ignominia i giorni.
Rabbrividìa pensando. In questa, intese
Che del palagio un servo giovanetto,
Del far gentile e del dolor d’Agnese
Preso era, e la chiedea con molto affetto.
Di pena un misto e di piacer comprese,
A quell’annunzio, di Zanobi il petto:
Fe’ venir la fanciulla; e, più turbato,
Ma con più dolce accento dell’usato,
— Agnese, incominciò, l’ultima volta
Che al mio cospetto a lamentar venisti,
Confesso, Agnese, i’ t’ho non bene accolta;
Di che trafitta, dolorando uscisti.
Non creder già che molto affetto e molta
De’ casi tuoi pietà non mi contristi.
Questo dirti volea, figlia e sorella:
Poi debbo anche annunziarti una novella.
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Un tuo compagno, il giovane Leone,
Par che ti voglia bene, e sua ti chiede.
Pensa, figliuola: e se il cor ti dispone
Vêr lui (buono e’ mi par), dàgli tua fede.
Del dubbiar tuo ben veggo la cagione:
Prole crear del tuo servaggio erede
Non ti dà ’l core. Or t’assicura: Iddio
A ciò porrà rimedio, e il tempo, e io.—
Agnese a lui: — non so s’io dica o taccia:
Ma forse che Leon conosca alcuna
Delle bontà che voi m’usate, e faccia
Vista d’amarmi per mutar fortuna.—
D’affettüosa, a questo dir, la faccia
Del vescovo si fa severa e bruna.
E — credi tu che la pietà, riprese,
Ch’io del tuo duol mostrai, gli sia palese? —
— Non so: gli è un mio pensier. — Candidamente
Disse (e giungea le man’) la giovanetta.
— M’accerterò ben io della sua mente, —
Dice Zanobi; e la rimanda in fretta.
Men di vergogna che d’orgoglio ei sente
Al cuore insopportabile una stretta.
Passeggiava a gran passi: — e che? sarei
Favola già, diceva, a’ servi miei? —
Ma fu breve il bollore: e un più gentile
Pensier nella sedata anima scese.
Ritto e fermo dicea con fronte umìle:
— Lo sa Dio, non foss’altri, e sàllo Agnese;
Che di me forse ride, e a lei par vile
E stolto affetto quel che a me cortese.
Semplice pare agli atti: ma chi mai
Donna conosce? e tu di lor che sai?
Non cercar, sventurato, a quarant’anni
Miseria ignota e irrisa e infame e rea.
Pensa a quel tempo che non d’altri affanni
Che degli altrui pietà ti possedea.
Salvami, o Madre, da crudeli inganni,
Tu, del sicuro amor serena idea:
Sgombra co’ rai dell’immortal tuo giorno
La sozza nebbia che mi fuma intorno. —
E, quasi molla che, pigiata, scatti,
Da quel breve pregar s’alza mutato;
E in alti affetti e varii e in virili atti
Versa ed afforza l’animo turbato.
A Leon parla, e con acuti e ratti
Accenti tenta del suo cor lo stato;
E sente (come quei che i veri apprese
Segni, in breve, d’amor) ch’egli ama Agnese.
Degl’indugi temente, a sè richiama,
Di rivederlo lieta, la fanciulla:
— Vidi Leone, e ti so dir ch’e’t’ama:
Il cuor per esso che ti dice? — Nulla. —
— Giovane è pur. — Fin troppo: e in folle brama
Di clamorose gioie e’ si trastulla. —
— Altri fors’ami.— No.— Migliore sposo
Speri? — Pensare all’avvenir non oso. —
— Ma se dal mio dominio ir ti lasciassi
Libera sì del capo e sì del cuore? —
Agnese verso lui si fe’ due passi,
Lieta, con atto che parea d’amore.
Poscia, richiusa in sè, cogli occhi bassi:
— Che farei sola e povera, o signore?
E chi guardare, e chi nutrir vorria
L’orfana inferma giovanezza mia?
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
Umil, nè in tutto a voi spregiata, ancella
Starò, finch’altro di me voglia Iddio. —
Ed ei: — così non può durare. — Ed ella:
— Perchè durar non puote, o signor mio? —
Quei la sogguarda fiso, e non favella;
Ella il rimira in atto incerto e pio;
S’intenerisce, e teme, e non intende,
Lui che, fra il dubbio ed il timor, s’accende.
Ed or fuggire con terror vorria,
Or accostarsi e prenderla per mano,
Aprirle il cor ferito, e l’agonia
Sfogar del lungo desiderio insano.
Levò ’l guardo, e all’immagin di Maria
L’affisse; e allor su un seggio più lontano
S’assise brancolando, e, a terra gli occhi,
E le convulse man strette a’ ginocchi:
— Agnese, a tal siam noi, che non possiamo
Vivere ormai sotto un medesmo tetto.
Serva vederti non poss’io, che t’amo,
T’amo di forte ed inconcesso affetto:
Nè tenerti potrei, siccom’io bramo,
Senza tirar su noi giusto sospetto;
Nè, che d’infame accusa il cârco resti
Sulla memoria mia, tu sosterresti.
Questo non dovre’io farti palese;
Ma nol posso celar. — Tacque, e riscosso
Quasi d’alto pensier, poscia riprese,
Lente abbassando ambe le man: — non posso. —
Duolo, pietà, pudor, facean d’Agnese
Il volto ad ora ad or pallido e rosso.
Nuovo quel dire e strano a lei parea;
Pure il cor mormorava: i’ lo sapea.
Ei seguitò: — se l’ôr ch’ho per te dato,
I’ non ricatto, farei dir la gente.
Meglio è facciam le viste che al mercato
Ti comperi a danaro un tuo parente.
Quanto bisogni al tuo libero stato,
Io vedrò di fornir compiutamente.
E tu, da me lontana, in qual vorrai
Solingo luogo, in pace i dì vivrai. —
E la fanciulla allor: — di vostra mano
La libertà, signor, certo m’è cara.
Pur temo forte che, di qui lontano,
La vita non mi sia tetra ed amara.
Ma spero (e prego non sperare invano)
Ch’io non sarò del vostro stato ignara. —
— Oh no! sciama egli. A Dio chieggo perdono
Di mia promessa. Uomo, e non Angel, sono.—
Giunse in breve un de’ suoi, che in dì di fiera
La riscattò con l’ôr che gli fu dato.
Agnese venne quella stessa sera
(Sì Zanobi volea) prender commiato.
La non parlava, sì turbata ell’era:
E’ la guardava come trasognato.
Una povera croce a un nastro appese,
E gliela cinse al collo, e: — questo, Agnese,
Questo ti sia memoria, le dicea,
Del mio dolore. — Ed ella: — o padre mio! —
E la man gli baciava, e soggiungea
Infra i singhiozzi, — vi consoli Iddio!
Egli e voi mi perdoni: io son la rea
Che tolsi pace a un cuor sì buono e pio. —
— Tu la rea? — sclamav’egli. E le tremanti
Labbra beean le lagrime stillanti.
Foglio aggiunto con postille, r.
Foglio aggiunto con postille, v.
— Dimmi almen che per me Dio pregherai
Tutti i dì. — Tutti i dì, con tutto il cuore. —
— Che ne’ bisogni a me ricorrerai,
Come a fratello? — Oh mio benefattore! —
—Che, se uno sposo Iddio ti manda....— Oh mai.
Non resta in questo cor luogo ad amore. —
— L’Angel tuo ti protegga: Iddio ti dia
Ogni suo bene, Agnese,... Agnese mia. —
Sola nel mondo, Agnese poco visse,
E di febbre e di tedio si consunse.
Venn’egli a lei già ’n fine, e benedisse,
E del sant’olio i labbri e i piè freddi unse.
Lungo al cammin di lui spazio prescrisse
Iddio: m’alfin l’ora beata giunse.
La notte innanzi ch’e’morisse, intese
Fioca una voce che parea d’Agnese.