A***. Nell’anniversario delle sue nozze
Volgono, Enrico, gli anni: e, come canto
Che sul medesmo suon torna e riposa,
T’apportan fidi il dì che ’l cor tuo lieto
Disse all’amata vergine: «sei mia.»
Hai di gioie innocenti in sen feconda
Una radice che l’età rinverde:
Solo non temi tu, solo non piangi.
Solo son io, come in deserta macchia
Vedovo augel ramingo, a cui già sopra
Venta il piovoso autunno, e per diletto
Gli tende insidie il cacciator dal basso.
Non abbastanza gli uomini codardi,
Lasso, fuggii, nè sull’altera cima
Del desolato mio pensier mi tenni.
Nel cuor mio siede insonne il mio nemico.
Che val’ i dì, le notti, i mesi, gli anni
Pugnar continua pugna, e fredde e mute
E ignote ad occhi umani aver vittorie?
Tutto disperde un dì (misero!), un’ora.
Volgono, Enrico, gli anni: e il sol, che fido
Radduce a Italia sua la primavera,
Ritrova te nella medesma stanza
Tra i noti aspetti; nè mutaron loco
I cari libri e le fidate carte.
Me via rapisce come inutil foglia,
E posa a terra, e ancor rapisce in giro
La sorte e i miei pensier’. Sempre la ruota
Maggior si fa, sempre il dolor nel centro.
Quando, Signor, l’inonorata e stanca
Mia battaglia avrà fine? O forza dammi
Di vincere il cuor mio, Padre, o m’uccidi.
Chi sa? nel gel della vicina morte
Forse anch’io tremerò, com’uom che lasci
Speranze e fide lagrime ed amori.
Pure or mi par che desïati i casti
Amplessi tuoi, come di moglie fida,
Mi giungeriano, o Morte: e a quando a quando
Freddo e atroce un amor di te mi prende,
Che a cercarti m’invita in fondo all’acque
Di questo carcer glorïoso antico.
Meglio morir quando ancor piena e balda
Batte nel cuore e nel pensier la vita,
E non picchiò la mano a infami porte,
E ad alta voce puoi gridar morendo:
Mio Dio, mio Dio, perchè m’abbandonasti?
Oh tu non m’abbandoni. Io di me stesso
Tormentator tiranno. Ed or mie vane
Querele a che nell’altrui dolce io mesco?
Perdona, Enrico. A’ gaudii altrui non porta
Invidia nulla il tuo trafitto amico,
Che, sè piangendo, al tuo gioir sorride.