• A Stefano Conti d’Ajaccio

    A Stefano Conti d’Ajaccio Cantami, o buon poeta, inno più lieto. Italia mia vedrò, l’amata e pianta Del pensier mio sorella: i templi antichi Vedrò, dov’io pregai soletto a sera; Vedrò le tele e i marmi, onde la prima Mi spirò ’ntorno al core aura del bello; Dal casto seno e dalle fresche labbra Di toscane fanciulle udrò l’accento Della favella mia puro venire, Quasi voce d’uccel tra la verdura. Come pittor che torna al suo modello, O bellezze immortali, a voi ritorno: Vena novella di piacer da voi Gl’innovati pensieri attingeranno. Fido amator così nella fervente E lungamente vagheggiata donna Nuove vaghezze trova ritornando, E pago, e non mai stanco, in lei riposa. Voi pur vedrò, foci del Tizio, ov’io Bevvi col latte e con la fede avita L’idïoma d’Italia e la speranza. Lì son del padre e della madre mia (Nè ancor le vidi), e d’un gentile amico Le sepolture. E poi che baci al sasso Dati avrò che dolor tanti ricopre, A te, Venezia, lieta ospite mia, E donna de’ miei padri, a te, possente Lombarda terra onde l’origin trassi, Riverrò, seguitando il mio destino. Lunga stagion vagante alla montagna, Torna il cavallo al cavaliero e al morso, Ma non obblia l’amor de’ paschi antichi. La terra dell’esilio avrà gran parte De’ miei pensier’; chè nell’esilio crebbe L’anima pellegrina: e sa d’amaro, Ma nutre forte, il pan della sventura. Nuovo di terre e di viventi aspetto Vidi, e udii voci che passàr’ volando, Che sonaro al cor mio nuove parole: E piacer’ provai dentro inaspettati; Come chi va per lunga erta pietrosa Incerto ansando, e scopre una valletta, E tra l’ombre e le case acqua corrente. Ond’io ne’ dì quando le tue m’avranno Quete e del fior dell’arte incoronate Acque, o Venezia, penserò là dove Ne’ grandi scogli della pia Bretagna Infrange l’Oceàn l’onde tonanti. E della Brenta al margine, distinto Di regie ville, mirerò giganti Gli Armòrici Dolmenni, e seder mesta Quiberòn dirimpetto al sol morente, Piangendo i figli suoi caduti indarno. E dove affretta il piè per lieta via L’Adige ameno, mi verranno a mente L’ore che lungo Senna innamorato Fra le mosse dal vento ombre cantai. Quando a notte entrerò, Pisa, il tuo campo Ove dormon le forti ossa degli avi Sotto la santa terra palestina, Dinanzi a me si schiereran le navi Carche d’oro e di guerra e di peccato, Da interminato pelago vegnenti Di Loïra alle foci e di Garonna. Nella pace, o Milan, di tua pianura, Dritte ed eccelse e in sua spessezza liete Fremeran d’Aïtone e di Nïello L’ ombre ne’ miei pensier’; vedrò ’l pallore Umile e altero delle còrse donne Percuotermi nel cor più che d’amore. Udrò, simile alla cirnea vendetta, Urlar tra i sassi e le ulivete il vento, E per le selci la levata fiamma; E il Vòcero che cupo a passo lento Segue l’Ombre de’ morti e chiama sangue. E te pur penserò, che dalla forte Terra in cui l’adulato esule nacque, Mandi del canto l’ospital saluto All’errante poeta. Oh con sue caste Forme, felice ingegno, a sè ti tragga L’italica bellezza: a lei modesti, Ma caldi e ornati di pietà, gli amori. Conti, memoria alata è la speranza. A me le molte, che raccolsi in via, Pie rimembranze, ne’ languor’ conforto, Lume al presente, e all’avvenir fien penna. Nocchier che salpa, i remi indietro appunta Alla riva fuggente: il navicello Guizza sull’onde, e a nuovi lidi aspira. 1839.