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Fondo Tommaseo della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
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Niccolò Tommaseo et Nantes: mostra allestita in occasione del convegno internazionale di studi Tommaseo europeo per il 150° anniversario della morte di Niccolò Tommaseo(1802-1874)
Le due vedove
Mesta, con vento e gel, venìa la notte:E due povere donne in un’angustaCameretta eran sole. Anna, dal lettoVolta a Lucia, che la vegliava infermaCon dolce cura, — Or ditemi, Lucia:Vedova in lieta età, piacente e sola;Come sapeste voi cansar d’amoreI soavi perigli e i duri affanni? —Lucia rispose: — Li cansai tenendoSempre d’altri pensier’ piena la vita;Che in ozïosi petti annida amore.La madre e il padre mio s’era già toltiNella sua pace Iddio. Nè da’ congiuntiDel mio marito morto, a’ quai dispiacqueCh’ei la mia povertà sposata avesse,Conforti aver potea d’opra e d’affetto.Ma ben più che di pane e di carezzeE’ mi giovâr: che in me tenendo fisiGli occhi severi, al giovane pensieroFuron tutela, e velo al volto mio.Nè co’ minor’ di me, raccolta e mesta,Affiatarmi potea, nè co’ maggiori,Povera, a paro andar. Tale una piantaIn mezzo a strette cittadine stradeSola s’innalza, e cerca il ciel co’ rami.Dalla messa dell’alba a notte tardaM’affaticavo a provveder di paneOnorato, e di scuola, il mio bambino:Egli la mia famiglia e l’amor mioUnico. E quando, invan chiamato, il sonnoFuggia dagli occhi lassi, e il mio guancialeLe mie cocenti lacrime bevea;I’ sentìa l’odoroso alito lieveDe’ suoi sonni innocenti, e offrivo a DioPer lui la mia gravosa orfana vita.E, vestendo i miei panni, a un fioco lumeMi rimettevo, a mezza notte il verno,Senza fuoco, al lavor, come personaChe si raffretta a uscir di gran periglio:E vinta da stanchezza, alfin, la seraVegnente appresso, mi prendea profondoSonno, e pietoso delle cure oblio.Spesso pensavo in cuor l’ore che lieteEbbi con lui che il buono Iddio mi diede,E poi mi tolse (Ei lo riposi in pace);E dicevo fra me: non tornerannoMai più quell’ore; e, al paragon di quelle,Ogni men vivo amor parria dispetto.Poi, pensando i dolor’ ch’ebbi con lui,—Giovane ancor, dicea, patisti tanto:Non cercar nuovi affanni. E che faraiPoscia, se a ben soffrir lena ti manca?Non dare al figliuol tuo padre un estrano:Non saprìa qual sorriso il persüada,Nè qual parola gli ferisca il cuore;E può, fin per amore, esser tiranno. —Ne vedevo pur tante, a cui l’anello,Il benedetto e sospirato anello,Venne servil catena; e quel che primaEra sommesso e grazïoso amante,Farsi crudel marito. E il giuro santo,Quasi periglio, mi facea paura.M’eran terror, più che speranza, i figliChe nel mio cuore avrian rubato il luogoAl primo unico mio, pel quale aveaTrepidando gioito e orato tanto.E se, la festa, dal pregare Iddio,Dall’assettar la casa poveretta,E dai dolci pensier’ del mio bambino,Tempo avanzasse; i’ lo spendea di cuoreIn visitando addolorati e infermi.Dicevo: è meglio assai, che sprecar tuttaL’abbondanza del cuor ne’ tuoi dolori;Meglio, Lucia, che tu ne serbi un poco,Un poco almeno, a consolare altrui. —Anna soggiunse allora: — Ed io so quantoAbbonda al bene il vostro cor, Lucia.Oh benedetta! a voi patir fu merto,E ripensarlo è gioia. Io dagli affanni,Tanto temuti e invan, colsi rimorso. —Lucia, commossa, le dicea paroleDi pietà, di speranza. Allor l’inferma,Per allentare il duol che la stringea(Dal confessar si fa minor la pena),Incominciò: — L’audace giovanetto,Al qual con gran desìo mi diei compagna(E non voleano i miei), m’amò per poco.Ma le stranezze sue m’eran più grateChe altrui lusinga; e s’accendea l’amore,Misto d’ambascia e di temenza e d’ire.Alcuna cosa in me s’era trasfusoDi quegl’impeti suoi; chè disfogavoNel bambino innocente il mio corruccio;Poi, con carezze ed affrettati baciSenza parola, gli chiedea perdono.L’uom che sì m’affliggea, quanto dilettoFosse al mio cuor, sentii quando lo persi.Per l’Appennin venìa. Dalla vetturaCadde, e una ruota gli passò sul petto.(Dicono adesso del vapor che uccide,E non si pensa quanti corpi cariPer altre vie già divorò la morte).Chi si trovò presente, a me dicevaCome il bel bruno pallido del visoNon fece luogo al lividor, nè a quantoSuol d’orrendo all’aspetto aver la morte.Passò traverso ai visceri vitaliLa ruota, e dentro stritolò. Là entroTutto lo spasmo; altrove ancor la vita,Salda la mente. Al sacerdote accorsoDisse all’orecchio e ricevè paroleDi senso eterno; e fra gli astanti immoti,Come chi nel suo letto s’addormenta,Spirò. Giacea disteso in sulla via,Chè non eran di là case o capanne.Nel men lontano cimitero ignotoEbbe da ignote man’ la sepoltura;E alcun di quelli che seguian pietosi,Avrà, vedendo spenzolar portateLe braccia lente e la giovane testa,Pensato al pianto degl’ignoti, orando.Il conduttore e i passeggieri intantoSpronar dovean, perchè ’l rumor del casoA’ cari lor fiera agonìa non fosse.E così suol talora essere inciampo,Noia più che dolor, la morte altrui;E l’uom, nel duolo altrui, pensa a se stesso.Come rimasi alla crudel novella!Un sogno mi parea confuso e scuro,Scuro, solcato di baglior’ maligni,E la vita e la morte: e men dolenteChe sopraffatta, vagellando andavo,Costernata di stupido sgomento.Pur mi riebbi in breve: ancor la vitaBella mi parve, e amor, dolce tormento.E d’uomo assai men degno amor mi prese,Ubbidïente e pauroso amoreE violento. E lui, stolta, prescelsi(Come l’uman desìo crede a’ sembianti!).Prescelsi ad uom che sotto umile aspettoDignitosa e fervente anima avea.Quanto per me sostenne, e quanta, amando,Dimostrò più di me che di sè curaQuel buon Giovanni! Non preghiere impronte,Nè sdegni nè lamenti: umile e pianoE fermo sempre e delicato affetto.Quanto non pose amor nel mio bambino,Come suo figlio fosse! Io, che temevoLe prepotenti gelosie di Naldo(Così l’altro avea nome), indispettitaRigettavo, infelice, i suoi presentiCh’e’ gli faceva; ingelosivo anch’ioCh’e’ mi togliesse il cor del mio Luigi.Luigi inver lo amava, e non poteaNaldo patir, che a me vedea sì caro:Chè veramente con modi aspri NaldoTrattava il mio figliuolo; ond’io trafittaPiangevo in cor, ma non ardìa far motto.E, perocchè ’l patir matura il senno,Quel bambino a momenti avea paroleDi veggente querela, e di consiglio,Come di vecchio grave; e mi ferivaDi stupor doloroso e di vergogna.Ond’io, più che di giudice severo,Temea sua vista: e guai quando una madreDee vergognarsi innanzi a’ suoi figliuoli!Or ecco un dì venir Giovanni, e dire:Anna, ho pensato; e lascerò Pistoia.Nell’udir questo (i’ non saprei se fosseL’occhio suo mesto o la levata fronte,La voce ferma, od il pallor del viso;Non so dir se pietate o pur dispetto,Riverenza o rimorso); io mi turbai.Non se n’addiede, e seguitò dicendo:Troverò meglio assai per l’arte mia(Gli era un valente intagliatore in legno)A Siena, bel paese e buona gente.Vengo per far le dipartenze mie,Anna, e ad offrirvi, se non v’è discaro,Se ne son degno, che fidiate il vostroLuigi a me. L’alleverò nell’arte,E (sapete, de’ miei non ho nessunoAl mondo) lo terrò come figliuolo.Misera, intesi ben quelle parole:Volean dir ch’e’ saprebbe essergli madreAssai miglior di me. Pur nel suo voltoEra tanto dolor, tanta preghieraChe recarle ad offesa io non potei.Ed in quel punto mi sentii più madre(Sia benedetto il nome tuo!); sentiiSulle gote il rossor, negli occhi il pianto.Chinai la fronte; e poi, lenti levandoGli occhi vêr lui, risposi: vi ringrazio,Giovanni, e degno a custodir vi stimoIl mio figliuolo; egli di voi sia degno.Pure, a pensar di ciò, se non vi grava,Chieggo un poco di tempo. Egli rispose,Quanto m’era in piacere aspetterebbe.Pensai che, nell’amore infatüata,Mal custodir saprei quell’innocente;Lo sciuperian dell’uomo a me diletto(Diletto sì che sciôr non men’ sapea)I non buoni parlar, gli atti non belli.Pensai che, innanzi al sacro altare unitaCon Naldo in breve (perocchè speranzaFerma era in me di raddrizzar sue vie),Luigi mio potrei riprender meco,Ed in grazia di Dio condur la vita.Anche pensai (nè so s’egli era ingannoDell’amor mio) che in togliermi dal senoDelle viscere mie l’unico frutto,E darlo all’uom da me straziato tanto,Io gli rendea del suo patir mercede,Degna mercede ad anima gentile.Venne il dì del partir. Naldo non volleEsser presente, e gli fui grata in cuoreDi sua durezza; e ancor ringrazio Iddio,Che a Giovanni le mie parole estremeFuron parole amiche, e del cuor mioGli si mostrò la meno ignobil parte.Eravam soli; ed egli: Anna, mi disse,Chi sa se più ci rivedremo? Addio.——I’ non vi raccomando il mio Luigi....——Non temete, Anna: a lui non manca un padre;E dì non passerà ch’egli non sentaDalla mia bocca di sua madre il nome.——Scrivete spesso. —Scriverò di lui;Che le lettere mie non vi sian gravi. ——Ah non dite così! —Fate ch’io possaNovelle aver di voi frequenti e liete.Ma se qualche dolor (nol faccia Iddio!)Anna, vi coglie, d’un lontano amicoNon vi scordate, d’un fratel, d’un padre,Qual più titol v’aggrada o men v’offende.——Grazie, Giovanni. Assai v’offesi; e l’oraQuesta non è di domandar perdono:Ma tacerlo non posso; e umilïataVi domando perdono. —A me lasciateQuesta parola, chè le vostre gioieDi mia vista importuna intorbidai.Anna, s’io muoio, la preghiera vostraDeh! non mi sia negata. —Ogni rampognaDi questo prego mi sarìa men dura.Dio vi rimerti e benedica, oh padreDel figlio mio. —Noi si piangea tacendo;E Luigi sentiam, che fuor piangea.Sul primo egli era del partir contento,Chè l’affetto a Giovanni e l’invogliavaDi nuove cose il giovanil desìo.Poi si mutò: parea sentisse a un trattoCh’i’ m’ero fatta in cuor madre più buona.Quando la mano a benedir gli posiSul capo, — Mamma! — singhiozzando grida;E cadde, e alle ginocchia mie s’avvolse,Alle ginocchia mie, Lucia, s’avvolse.Io mi sentìa morir: corse e mi resseGiovanni; e, gli occhi a lui levando, vidiChe più dirotte lagrime piangeaDi quando a solo a sol mi disse addio.Ci distaccammo, i’ non saprei dir come.Quanto soffersi allor che Naldo in beffa,Quasi mentito, il mio dolor volgea,E usava a consolar vili parole,Che al rammarco aggiungeano ira e rimorso!Allora lo conobbi: allor la guerraTra il disprezzo e l’amore (orribil guerra)Incominciò. Sicuro del cor mio,Lo calpestava, come l’uom che ha frettaFa della mota che gli tarda il passo.Allor le liti, e i rei soverchi, e i sozziVituperii, e le busse: e fiera tracciaN’è questa doglia ch’a morir mi mena.Per quattr’anni penai. Sfinita, inferma,Lavorar non potea. Quando vendutiM’ebbe quel po’ di roba e il vezzo e gli ori,M’abbandonò con dispietato oltraggio;E poi fe’ strazio del mio nome, e disse,Disse cose di me, che non dovea.Far palese a Giovanni il mio patireE l’amaro abbandono, io non osai.Lo sapev’egli; ma per pio timoreNon paresse ripiglio il suo compianto,Sempre di ciò tacea. Ben di mio figlioSempre più buone mi scrivea novelle;E’ mi si profferiva, e la saluteDi curar mi pregava; e, come fosseGuadagno (il seppi poi) del mio Luigi,E’ mi mandò di suo molti soccorsi.Ahi che duro nemico è il nostro orgoglio!S’io gli facea del rivenire un cenno,D’unir l’afflitta mia con la sua vita,E’ ritornava, e il mio Luigi seco:Forse io più sana, ed egli sarìa vivo.Ma tutto orgoglio il mio tacer non era.Pensavo: crederà che per vendetta,O disperata, i’ mi rivolga a lui.Egli il mio cor non vede. E che fec’ioPer meritar sua fè? Bel dono, offrireAnima affaticata e corpo stanco,Frutto bacato e illanguidito fiore!E s’egli il ben che desiava tanto,Poi disamasse? I suoi silenzii, il guardoFreddo, accorato immaginavo in mente,E all’idea del sospetto abbrividivo.Indugierem (fra me dicevo): e intantoMi riavrò di mia salute un poco;E del mutato cor gli sarà pegnoLa mia composta e solitaria vita.Ahi che non ero degna, Anima cara,D’allevïar (mia colpa) i dolor’ tuoi.Scorso er’un anno; ed ecco inaspettataDa Luigi una lettera di morte;Morto compiuti appena i quarant’anni,Placidamente, a guisa d’uom che, stancoD’aspro cammin, s’adagia e s’addormenta.Benedicea morendo Anna e Luigi;E tuttoquanto il suo lasciava a lui,Che in uso mio l’adopri; e lui pregavaChe tornasse al più presto a viver meco.Sul primo colpo non sentii la piaga:Ma i profondi dolor’ ch’empion la vita,Più lavorano in cuor più che li pensi.Il pentire e l’orar temprava i mieiIn parte; ed anche li facea men duri,Che noto del patir m’era ogni aspetto.Ma ciascun giorno i’ mi sentia più lassa:E il desiderio del figliuol lontanoMi piangea ne’ pensieri. Io già sapevoChe il mio Luigi avea posto l’affettoA una ragazza semplice e modesta,Cui la grazia è bellezza, e sempre nuovaDote il lavoro ed il timor di Dio.Quando partì, gli avea quattordici anni;Venti n’avrà tra poco. Io che per provaConosco i fieri dell’amor desii,Affrettar non l’osai che rivenisse;Gli nascosi il mio mal; dicevo: assaiIn questa vita a sospirar gli resta.A tuo bell’agio le faccende assetta(Scrissi); e non abbacchiar quello che tanteAl buon maestro tuo costò fatiche.Non lasciar la fanciulla che ti piacque,Prima che sia tua moglie: e, se al corredoO ad altro, un tempo si richiede, aspetta.Tua madre attende: e sarà lieta intantoDella speranza sua, della tua pace.Già l’anno or volge; e ancor no lo riveggo.So ch’e’ vorrebbe, e non potè finora:Ma sento le mie forze venir meno;Temo, Lucia, che a rivederlo in terraLa mia vita non basti. E dir che venga,Venga sull’atto perchè sono in fine,Come se fosse un mio crudel nemicoFerirlo all’improvvista, e ferir quellaChe madre un dì mi nomerà, non oso. —Così dicea la misera: e LuciaCon pie parole e con silenzii piiLa confortava, come fa personaEsperta del dolor. Ma veramentePoco a penar quaggiù le rimanea.Quel giorno appunto che così sua madrePiangea, Luigi la fanciulla amataAll’altare conduceva; e doppia gioiaGli era il pensier della materna gioia.Indi a tre giorni, un foglio di LuciaCon semplici parole affettuoseGli annunzia in ombra il ver; prega che affretti.Pronti eran già: precipitâr gl’indugi;Vennero in fretta. Oh le accoglienze meste,L’interrogar con gli occhi, ed il sorrisoNell’angoscia, e le lagrime ne’ baci!— Mal principio, figliuoli, Anna dicea,Un’inferma per casa! E pur gli è il meglio.Chi comincia in dolor, finisce in pace. —Piacque Matilde ad Anna, ed Anna a lei:E ne gioìa Luigi: al viso, agli atti,Più che sposi novei, parean fratelli.E rivivea nelle due vite careAnna; e l’ore, a lei già tanto deserte,Di dolci ragionar, misera, empieva.Poco dicea di sè: del suo LuigiTutto saper chiedea; l’opre, i guadagni,L’ore del sonno, il cibo, i dì festivi,Le vie, le chiese, la campagna, il cielo.E di Giovanni ancor molto chiedeva;Gli ultimi giorni, l’ultime parole:E, perch’altri non pianga o, impietositi,Non restassen di dir, frenava il pianto.Rinsanicar parea: ma poi ricadde.E chiese i Sacramenti del Signore;E ogni cosa ordinò, com’uom che in tempoA gran via s’apparecchia, e, riposato,L’ora del suo partir, sedendo, aspetta.Un dì di festa, un tepido e serenoDì di febbraio, nel tornar di chiesaLuïgi le porgea senza parolaUn mazzolin di mammole e gaggìe,E le baciava la gelata fronte.Posta a seder sul letto, ella si feceDare una croce piccola d’argento,Ch’avuta da sua madre in morte avea:E prese in man la crocellina e i fiori,E li diede a Matilde: —Ecco, Matilde,L’eredità che può quest’infeliceDonna lasciarti. Iddio vi benedica,E le gioie ch’e’ serba a’ suoi più cari,Nel suo possente amor, cari, vi dia.Non mi pesa morir. Certo i’ bramavoViver con voi: ma sia che piace a Dio.Altra, e di me miglior, madre vi resta,Lucia: seguite, prego, i suoi consigli,Della sua dolce carità gli esempi.Degni vi faccia Iddio che parte alcunaDel ben ch’ella mi fe’ rendiate a lei.Ama, o Matilde, il figlio mio, che molto,Ma molto t’ama: e sii moglie e sorella,E i miei difetti l’amor tuo compensi.Per l’amor di Matilde, o mio Luigi,I mali esempi miei, prego, perdona:I dolor’ che ti diei ne’ tuoi prim’anni,Angelo mio, perdona. — Egli e Matilde,Inginocchiati, e nelle palme il viso,Singhiozzavano: in piè ritta Lucia,Con gli occhi in alto, lagrimando orava.In quella il Sacerdote entra recandoLe parole del ciel, che prezïosaFanno negli occhi del Signor la morte.— Si raccomanda nelle vostre mani,Signor, lo Spirto mio, —la morïenteDisse; e, volta a Lucia, mostrando i figli:—I miei...— Tese la mano, e più non disse.Gli occhi eran chiusi; ma sul labbro biancoAncor parea ch’errasse una parola.1844.