• Le due vedove

    Le due vedove Mesta, con vento e gel, venìa la notte: E due povere donne in un’angusta Cameretta eran sole. Anna, dal letto Volta a Lucia, che la vegliava inferma Con dolce cura, — Or ditemi, Lucia: Vedova in lieta età, piacente e sola; Come sapeste voi cansar d’amore I soavi perigli e i duri affanni? — Lucia rispose: — Li cansai tenendo Sempre d’altri pensier’ piena la vita; Che in ozïosi petti annida amore. La madre e il padre mio s’era già tolti Nella sua pace Iddio. Nè da’ congiunti Del mio marito morto, a’ quai dispiacque Ch’ei la mia povertà sposata avesse, Conforti aver potea d’opra e d’affetto. Ma ben più che di pane e di carezze E’ mi giovâr: che in me tenendo fisi Gli occhi severi, al giovane pensiero Furon tutela, e velo al volto mio. Nè co’ minor’ di me, raccolta e mesta, Affiatarmi potea, nè co’ maggiori, Povera, a paro andar. Tale una pianta In mezzo a strette cittadine strade Sola s’innalza, e cerca il ciel co’ rami. Dalla messa dell’alba a notte tarda M’affaticavo a provveder di pane Onorato, e di scuola, il mio bambino: Egli la mia famiglia e l’amor mio Unico. E quando, invan chiamato, il sonno Fuggia dagli occhi lassi, e il mio guanciale Le mie cocenti lacrime bevea; I’ sentìa l’odoroso alito lieve De’ suoi sonni innocenti, e offrivo a Dio Per lui la mia gravosa orfana vita. E, vestendo i miei panni, a un fioco lume Mi rimettevo, a mezza notte il verno, Senza fuoco, al lavor, come persona Che si raffretta a uscir di gran periglio: E vinta da stanchezza, alfin, la sera Vegnente appresso, mi prendea profondo Sonno, e pietoso delle cure oblio. Spesso pensavo in cuor l’ore che liete Ebbi con lui che il buono Iddio mi diede, E poi mi tolse (Ei lo riposi in pace); E dicevo fra me: non torneranno Mai più quell’ore; e, al paragon di quelle, Ogni men vivo amor parria dispetto. Poi, pensando i dolor’ ch’ebbi con lui, —Giovane ancor, dicea, patisti tanto: Non cercar nuovi affanni. E che farai Poscia, se a ben soffrir lena ti manca? Non dare al figliuol tuo padre un estrano: Non saprìa qual sorriso il persüada, Nè qual parola gli ferisca il cuore; E può, fin per amore, esser tiranno. — Ne vedevo pur tante, a cui l’anello, Il benedetto e sospirato anello, Venne servil catena; e quel che prima Era sommesso e grazïoso amante, Farsi crudel marito. E il giuro santo, Quasi periglio, mi facea paura. M’eran terror, più che speranza, i figli Che nel mio cuore avrian rubato il luogo Al primo unico mio, pel quale avea Trepidando gioito e orato tanto. E se, la festa, dal pregare Iddio, Dall’assettar la casa poveretta, E dai dolci pensier’ del mio bambino, Tempo avanzasse; i’ lo spendea di cuore In visitando addolorati e infermi. Dicevo: è meglio assai, che sprecar tutta L’abbondanza del cuor ne’ tuoi dolori; Meglio, Lucia, che tu ne serbi un poco, Un poco almeno, a consolare altrui. — Anna soggiunse allora: — Ed io so quanto Abbonda al bene il vostro cor, Lucia. Oh benedetta! a voi patir fu merto, E ripensarlo è gioia. Io dagli affanni, Tanto temuti e invan, colsi rimorso. — Lucia, commossa, le dicea parole Di pietà, di speranza. Allor l’inferma, Per allentare il duol che la stringea (Dal confessar si fa minor la pena), Incominciò: — L’audace giovanetto, Al qual con gran desìo mi diei compagna (E non voleano i miei), m’amò per poco. Ma le stranezze sue m’eran più grate Che altrui lusinga; e s’accendea l’amore, Misto d’ambascia e di temenza e d’ire. Alcuna cosa in me s’era trasfuso Di quegl’impeti suoi; chè disfogavo Nel bambino innocente il mio corruccio; Poi, con carezze ed affrettati baci Senza parola, gli chiedea perdono. L’uom che sì m’affliggea, quanto diletto Fosse al mio cuor, sentii quando lo persi. Per l’Appennin venìa. Dalla vettura Cadde, e una ruota gli passò sul petto. (Dicono adesso del vapor che uccide, E non si pensa quanti corpi cari Per altre vie già divorò la morte). Chi si trovò presente, a me diceva Come il bel bruno pallido del viso Non fece luogo al lividor, nè a quanto Suol d’orrendo all’aspetto aver la morte. Passò traverso ai visceri vitali La ruota, e dentro stritolò. Là entro Tutto lo spasmo; altrove ancor la vita, Salda la mente. Al sacerdote accorso Disse all’orecchio e ricevè parole Di senso eterno; e fra gli astanti immoti, Come chi nel suo letto s’addormenta, Spirò. Giacea disteso in sulla via, Chè non eran di là case o capanne. Nel men lontano cimitero ignoto Ebbe da ignote man’ la sepoltura; E alcun di quelli che seguian pietosi, Avrà, vedendo spenzolar portate Le braccia lente e la giovane testa, Pensato al pianto degl’ignoti, orando. Il conduttore e i passeggieri intanto Spronar dovean, perchè ’l rumor del caso A’ cari lor fiera agonìa non fosse. E così suol talora essere inciampo, Noia più che dolor, la morte altrui; E l’uom, nel duolo altrui, pensa a se stesso. Come rimasi alla crudel novella! Un sogno mi parea confuso e scuro, Scuro, solcato di baglior’ maligni, E la vita e la morte: e men dolente Che sopraffatta, vagellando andavo, Costernata di stupido sgomento. Pur mi riebbi in breve: ancor la vita Bella mi parve, e amor, dolce tormento. E d’uomo assai men degno amor mi prese, Ubbidïente e pauroso amore E violento. E lui, stolta, prescelsi (Come l’uman desìo crede a’ sembianti!). Prescelsi ad uom che sotto umile aspetto Dignitosa e fervente anima avea. Quanto per me sostenne, e quanta, amando, Dimostrò più di me che di sè cura Quel buon Giovanni! Non preghiere impronte, Nè sdegni nè lamenti: umile e piano E fermo sempre e delicato affetto. Quanto non pose amor nel mio bambino, Come suo figlio fosse! Io, che temevo Le prepotenti gelosie di Naldo (Così l’altro avea nome), indispettita Rigettavo, infelice, i suoi presenti Ch’e’ gli faceva; ingelosivo anch’io Ch’e’ mi togliesse il cor del mio Luigi. Luigi inver lo amava, e non potea Naldo patir, che a me vedea sì caro: Chè veramente con modi aspri Naldo Trattava il mio figliuolo; ond’io trafitta Piangevo in cor, ma non ardìa far motto. E, perocchè ’l patir matura il senno, Quel bambino a momenti avea parole Di veggente querela, e di consiglio, Come di vecchio grave; e mi feriva Di stupor doloroso e di vergogna. Ond’io, più che di giudice severo, Temea sua vista: e guai quando una madre Dee vergognarsi innanzi a’ suoi figliuoli! Or ecco un dì venir Giovanni, e dire: Anna, ho pensato; e lascerò Pistoia. Nell’udir questo (i’ non saprei se fosse L’occhio suo mesto o la levata fronte, La voce ferma, od il pallor del viso; Non so dir se pietate o pur dispetto, Riverenza o rimorso); io mi turbai. Non se n’addiede, e seguitò dicendo: Troverò meglio assai per l’arte mia (Gli era un valente intagliatore in legno) A Siena, bel paese e buona gente. Vengo per far le dipartenze mie, Anna, e ad offrirvi, se non v’è discaro, Se ne son degno, che fidiate il vostro Luigi a me. L’alleverò nell’arte, E (sapete, de’ miei non ho nessuno Al mondo) lo terrò come figliuolo. Misera, intesi ben quelle parole: Volean dir ch’e’ saprebbe essergli madre Assai miglior di me. Pur nel suo volto Era tanto dolor, tanta preghiera Che recarle ad offesa io non potei. Ed in quel punto mi sentii più madre (Sia benedetto il nome tuo!); sentii Sulle gote il rossor, negli occhi il pianto. Chinai la fronte; e poi, lenti levando Gli occhi vêr lui, risposi: vi ringrazio, Giovanni, e degno a custodir vi stimo Il mio figliuolo; egli di voi sia degno. Pure, a pensar di ciò, se non vi grava, Chieggo un poco di tempo. Egli rispose, Quanto m’era in piacere aspetterebbe. Pensai che, nell’amore infatüata, Mal custodir saprei quell’innocente; Lo sciuperian dell’uomo a me diletto (Diletto sì che sciôr non men’ sapea) I non buoni parlar, gli atti non belli. Pensai che, innanzi al sacro altare unita Con Naldo in breve (perocchè speranza Ferma era in me di raddrizzar sue vie), Luigi mio potrei riprender meco, Ed in grazia di Dio condur la vita. Anche pensai (nè so s’egli era inganno Dell’amor mio) che in togliermi dal seno Delle viscere mie l’unico frutto, E darlo all’uom da me straziato tanto, Io gli rendea del suo patir mercede, Degna mercede ad anima gentile. Venne il dì del partir. Naldo non volle Esser presente, e gli fui grata in cuore Di sua durezza; e ancor ringrazio Iddio, Che a Giovanni le mie parole estreme Furon parole amiche, e del cuor mio Gli si mostrò la meno ignobil parte. Eravam soli; ed egli: Anna, mi disse, Chi sa se più ci rivedremo? Addio.— —I’ non vi raccomando il mio Luigi....— —Non temete, Anna: a lui non manca un padre; E dì non passerà ch’egli non senta Dalla mia bocca di sua madre il nome.— —Scrivete spesso. —Scriverò di lui; Che le lettere mie non vi sian gravi. — —Ah non dite così! —Fate ch’io possa Novelle aver di voi frequenti e liete. Ma se qualche dolor (nol faccia Iddio!) Anna, vi coglie, d’un lontano amico Non vi scordate, d’un fratel, d’un padre, Qual più titol v’aggrada o men v’offende.— —Grazie, Giovanni. Assai v’offesi; e l’ora Questa non è di domandar perdono: Ma tacerlo non posso; e umilïata Vi domando perdono. —A me lasciate Questa parola, chè le vostre gioie Di mia vista importuna intorbidai. Anna, s’io muoio, la preghiera vostra Deh! non mi sia negata. —Ogni rampogna Di questo prego mi sarìa men dura. Dio vi rimerti e benedica, oh padre Del figlio mio. —Noi si piangea tacendo; E Luigi sentiam, che fuor piangea. Sul primo egli era del partir contento, Chè l’affetto a Giovanni e l’invogliava Di nuove cose il giovanil desìo. Poi si mutò: parea sentisse a un tratto Ch’i’ m’ero fatta in cuor madre più buona. Quando la mano a benedir gli posi Sul capo, — Mamma! — singhiozzando grida; E cadde, e alle ginocchia mie s’avvolse, Alle ginocchia mie, Lucia, s’avvolse. Io mi sentìa morir: corse e mi resse Giovanni; e, gli occhi a lui levando, vidi Che più dirotte lagrime piangea Di quando a solo a sol mi disse addio. Ci distaccammo, i’ non saprei dir come. Quanto soffersi allor che Naldo in beffa, Quasi mentito, il mio dolor volgea, E usava a consolar vili parole, Che al rammarco aggiungeano ira e rimorso! Allora lo conobbi: allor la guerra Tra il disprezzo e l’amore (orribil guerra) Incominciò. Sicuro del cor mio, Lo calpestava, come l’uom che ha fretta Fa della mota che gli tarda il passo. Allor le liti, e i rei soverchi, e i sozzi Vituperii, e le busse: e fiera traccia N’è questa doglia ch’a morir mi mena. Per quattr’anni penai. Sfinita, inferma, Lavorar non potea. Quando venduti M’ebbe quel po’ di roba e il vezzo e gli ori, M’abbandonò con dispietato oltraggio; E poi fe’ strazio del mio nome, e disse, Disse cose di me, che non dovea. Far palese a Giovanni il mio patire E l’amaro abbandono, io non osai. Lo sapev’egli; ma per pio timore Non paresse ripiglio il suo compianto, Sempre di ciò tacea. Ben di mio figlio Sempre più buone mi scrivea novelle; E’ mi si profferiva, e la salute Di curar mi pregava; e, come fosse Guadagno (il seppi poi) del mio Luigi, E’ mi mandò di suo molti soccorsi. Ahi che duro nemico è il nostro orgoglio! S’io gli facea del rivenire un cenno, D’unir l’afflitta mia con la sua vita, E’ ritornava, e il mio Luigi seco: Forse io più sana, ed egli sarìa vivo. Ma tutto orgoglio il mio tacer non era. Pensavo: crederà che per vendetta, O disperata, i’ mi rivolga a lui. Egli il mio cor non vede. E che fec’io Per meritar sua fè? Bel dono, offrire Anima affaticata e corpo stanco, Frutto bacato e illanguidito fiore! E s’egli il ben che desiava tanto, Poi disamasse? I suoi silenzii, il guardo Freddo, accorato immaginavo in mente, E all’idea del sospetto abbrividivo. Indugierem (fra me dicevo): e intanto Mi riavrò di mia salute un poco; E del mutato cor gli sarà pegno La mia composta e solitaria vita. Ahi che non ero degna, Anima cara, D’allevïar (mia colpa) i dolor’ tuoi. Scorso er’un anno; ed ecco inaspettata Da Luigi una lettera di morte; Morto compiuti appena i quarant’anni, Placidamente, a guisa d’uom che, stanco D’aspro cammin, s’adagia e s’addormenta. Benedicea morendo Anna e Luigi; E tuttoquanto il suo lasciava a lui, Che in uso mio l’adopri; e lui pregava Che tornasse al più presto a viver meco. Sul primo colpo non sentii la piaga: Ma i profondi dolor’ ch’empion la vita, Più lavorano in cuor più che li pensi. Il pentire e l’orar temprava i miei In parte; ed anche li facea men duri, Che noto del patir m’era ogni aspetto. Ma ciascun giorno i’ mi sentia più lassa: E il desiderio del figliuol lontano Mi piangea ne’ pensieri. Io già sapevo Che il mio Luigi avea posto l’affetto A una ragazza semplice e modesta, Cui la grazia è bellezza, e sempre nuova Dote il lavoro ed il timor di Dio. Quando partì, gli avea quattordici anni; Venti n’avrà tra poco. Io che per prova Conosco i fieri dell’amor desii, Affrettar non l’osai che rivenisse; Gli nascosi il mio mal; dicevo: assai In questa vita a sospirar gli resta. A tuo bell’agio le faccende assetta (Scrissi); e non abbacchiar quello che tante Al buon maestro tuo costò fatiche. Non lasciar la fanciulla che ti piacque, Prima che sia tua moglie: e, se al corredo O ad altro, un tempo si richiede, aspetta. Tua madre attende: e sarà lieta intanto Della speranza sua, della tua pace. Già l’anno or volge; e ancor no lo riveggo. So ch’e’ vorrebbe, e non potè finora: Ma sento le mie forze venir meno; Temo, Lucia, che a rivederlo in terra La mia vita non basti. E dir che venga, Venga sull’atto perchè sono in fine, Come se fosse un mio crudel nemico Ferirlo all’improvvista, e ferir quella Che madre un dì mi nomerà, non oso. — Così dicea la misera: e Lucia Con pie parole e con silenzii pii La confortava, come fa persona Esperta del dolor. Ma veramente Poco a penar quaggiù le rimanea. Quel giorno appunto che così sua madre Piangea, Luigi la fanciulla amata All’altare conduceva; e doppia gioia Gli era il pensier della materna gioia. Indi a tre giorni, un foglio di Lucia Con semplici parole affettuose Gli annunzia in ombra il ver; prega che affretti. Pronti eran già: precipitâr gl’indugi; Vennero in fretta. Oh le accoglienze meste, L’interrogar con gli occhi, ed il sorriso Nell’angoscia, e le lagrime ne’ baci! — Mal principio, figliuoli, Anna dicea, Un’inferma per casa! E pur gli è il meglio. Chi comincia in dolor, finisce in pace. — Piacque Matilde ad Anna, ed Anna a lei: E ne gioìa Luigi: al viso, agli atti, Più che sposi novei, parean fratelli. E rivivea nelle due vite care Anna; e l’ore, a lei già tanto deserte, Di dolci ragionar, misera, empieva. Poco dicea di sè: del suo Luigi Tutto saper chiedea; l’opre, i guadagni, L’ore del sonno, il cibo, i dì festivi, Le vie, le chiese, la campagna, il cielo. E di Giovanni ancor molto chiedeva; Gli ultimi giorni, l’ultime parole: E, perch’altri non pianga o, impietositi, Non restassen di dir, frenava il pianto. Rinsanicar parea: ma poi ricadde. E chiese i Sacramenti del Signore; E ogni cosa ordinò, com’uom che in tempo A gran via s’apparecchia, e, riposato, L’ora del suo partir, sedendo, aspetta. Un dì di festa, un tepido e sereno Dì di febbraio, nel tornar di chiesa Luïgi le porgea senza parola Un mazzolin di mammole e gaggìe, E le baciava la gelata fronte. Posta a seder sul letto, ella si fece Dare una croce piccola d’argento, Ch’avuta da sua madre in morte avea: E prese in man la crocellina e i fiori, E li diede a Matilde: —Ecco, Matilde, L’eredità che può quest’infelice Donna lasciarti. Iddio vi benedica, E le gioie ch’e’ serba a’ suoi più cari, Nel suo possente amor, cari, vi dia. Non mi pesa morir. Certo i’ bramavo Viver con voi: ma sia che piace a Dio. Altra, e di me miglior, madre vi resta, Lucia: seguite, prego, i suoi consigli, Della sua dolce carità gli esempi. Degni vi faccia Iddio che parte alcuna Del ben ch’ella mi fe’ rendiate a lei. Ama, o Matilde, il figlio mio, che molto, Ma molto t’ama: e sii moglie e sorella, E i miei difetti l’amor tuo compensi. Per l’amor di Matilde, o mio Luigi, I mali esempi miei, prego, perdona: I dolor’ che ti diei ne’ tuoi prim’anni, Angelo mio, perdona. — Egli e Matilde, Inginocchiati, e nelle palme il viso, Singhiozzavano: in piè ritta Lucia, Con gli occhi in alto, lagrimando orava. In quella il Sacerdote entra recando Le parole del ciel, che prezïosa Fanno negli occhi del Signor la morte. — Si raccomanda nelle vostre mani, Signor, lo Spirto mio, —la morïente Disse; e, volta a Lucia, mostrando i figli: —I miei...— Tese la mano, e più non disse. Gli occhi eran chiusi; ma sul labbro bianco Ancor parea ch’errasse una parola. 1844.