• Una madre

    Una madre «Di due mie bambinette e d’un bambino, Tre angeli il Signor fatti n’avea. Giovane allora, ero pur madre: e piansi; Ma non sapevo ancor quanto potesse Nelle materne viscere l’amore. Ah non è ver che sempre i colpi primi Siano i più duri, e nel patir si faccia L’uom più forte al patir. Grande mistero, L’anima, nuova a sè resta e diventa; Scopre in sè nuovi cieli e nuovi abissi. De’ tre vivi il minore era Tommaso; Questi d’un fratel mio portava il nome, E d’un cognato d’innocente vita E venerando in gioventù, consunto Di tisi innanzi che all’altar potesse Le nozze benedir de’ due cugini: Chè mia madre a suo padre era sorella. Una disgrazia già segnati avea Di questo mio bambino i teneri anni. Fitti son di pericoli quegli anni; Come chi va per sdrucciolevol via, Che mal si regge; e, a dritta e a manca, abisso. Or la donna di casa alla finestra Lo teneva affacciato, che respiri Un po’ di luce, e per veder le cose: Chè quell’età con gli occhi impara e pensa. Ella godea del suo gioire; e buona Era: ma come riparare a tutto, Gente di fuori, se non può la madre? Lui, brillando a quel limpido sereno, Come per arrivar cosa distante Che accosta par, quasi spiccasse un volo, Sguizza di tra le braccia. Un punto, ed era Sfragellato deforme in sulla via. Il capo in giù, tutto il corpo nel vano; Quella da un piede lo prende atterrita, E me lo rende. Ma di quel momento, Rapido come lampo, a lui dovea Nel piede infermo e nell’anima mesta Il segno rimaner fino alla morte. Restar poteva più imperfetto assai; Ma l’un piè non posava in dirittura, E coll’altro all’andar non consentiva. Guardar nel suo figliuolo a cuor di madre È tenerezza; ma, quand’io posavo L’occhio su lui, della gentil persona Quello vedevo sol, che mi traesse Al terror di quel punto: e il mio pensiero Per tutte le giornate di sua vita, Come per solitudine, scorreva. Troppo sappiam che a vizii e a colpe infami, Se ben portate e a garbo, hanno sovente Carezze allegre; al più leggier difetto Ghigno e dispregi, gli uomini crudeli. E tremavo per l’anima innocente, Che nel corruccio dell’offese altrui Inacerbisca, e, prevenendo, avventi Nel sospettato schernitor gli scherni. Ma non capiva invidia o stizza in cuore Del poveretto mio. Gli altri fanciulli Vispi vedendo e gai, li rimirava Con mite, e pien di lacrime, sorriso. Così patito fiorellino accoglie Del mattin la rugiada, e par che pianga. Mesto e sereno (come in cielo, appena Velato, i raggi dell’albor sull’acque Sprizzano, e come l’iride dipinge Le nuvolette in timidi colori) Crebbe infino ai sett’anni. Io dell’ingegno Non so; ma un’aria di pensoso senno, Un più che verginal raccoglimento, Un intelletto di pudor, faceva Lui venerando nell’età fanciulla. Schivo senz’uggia, e delle umane cose, Quasi provate, penetrando il vano, Sentir pareva per sublime istinto Stanchezza della terra, amor del cielo. Già ti chiamava il cielo, o figliuol mio, Per la via de’ dolori! È gran mistero, Gran mistero il dolor degl’innocenti. Il soffrir loro a noi soffrire insegni, C’insegni a far con opra e con preghiera Ch’altri innocente non patisca tanto. Alla fronte gravezza, indi dolori Fieri al capo, e vertigini; e frequente, Poi più rimesso, il polso, e poi più rapido; E dilatata la pupilla, e i nervi Convulsi a scosse. E’ parean bachi, ed era (Povero figliuol mio, terrore a dirsi!) L’idrope del cervello. Invade il seggio Proprio al pensiero, e pur lascia il pensiero Senta i morsi di morte a uno a uno. Entrò strisciando tacita la morte. Spento così nessun della famiglia: Nè l’arte, nè il cuor mio, non se ne addava; Sano l’aspetto, e il ritondetto viso Fra il candor brunettino e un bel vermiglio. Parve per poco alleggerir la testa L’enfiar de’ piedi: e allora al suo difetto Recai, pensando, la cagion del male; E più acre che mai sentii rimorso, Che non lo seppi custodire, io madre. Sogni infelici. Il lento umor nemico Riserpeggiò tornando onde si mosse, A trasudar del cranio tenerello Per tutti gli spiragli, e impregnar l’ossa; Di corrente vital, vetroso stagno. Dicon che un’aria più leggiera e viva Può rïaverli: ma chi sente in tempo L’insidie mute? E quella prova anch’essa Par cada a vuoto; e par, checchè si faccia, Che di diciotto appena uno ne campi. Ma il poverino mio non fu quell’uno. Parea tranquillo: ed ecco ad ora ad ora, Com’acqua che turbata si rincrespi, Tutta alterarsi, e rimaner la faccia Quasi da lungo malore abbattuta. Nel compresso cervello avviticchiate, La lenta morte e l’ancor piena vita Incominciavan già fiera battaglia. Ogni leggier rumore, ed anco il raggio Desiderato della cara luce, Noia ed offesa a lui; gli occhi in dolore, E sconvolti e sporgenti, guatar losco. Quando, com’uom ch’ansio ricerca il vero E lo teme, i suoi sonni interrogavo, L’occhio di sotto alle palpèbre, mezzo Chiuso, rotava, e mi facea paura. Scuoter del capo, e brividi, e di febbre Capricci a sbalzi, e un agitarsi spesso; E ai sussulti succedere languori, Qual di persona da gran male stanca. Ma, come fiotta il mar, caduto il vento, E la barchetta debole mal certa Non sa se turbin nuovo ancor minacci; In quel riposo, era, o parea, tempesta. Pur l’innocente spirito sereno (Docile più che quella età non suole, Ch’ai rimedi fa guerra) affetto e pace Metteva intorno a sè, di raggi in guisa; E si leggea negli atti püerili La pazïenza di virtù pensosa. Non pur nel capo lo ferìan dolori E nel collo e nel petto e nelle spalle; Nello stomaco ancor molto il tormento, Chè nè cibo reggea nè medicina. M’era ferro alle viscere il sommesso Gemito; e il suo dirugginar de’ denti, Fremito a me: chè, più ch’egli in se stesso Non si sentisse, i’ mi sentivo in lui. Non saprei dir qual più pietoso fosse, Il letargo o il delirio, e dal letargo Il risentirsi con acute grida; O nel delirio, a me più memorande, Le languide parole affettüose. Dopo l’accesso violento, avea Pace nel viso, e il guardo intenso, come Di contemplante in estasi rapito. La parola perdè, perdè la vista, E il senso interno, e mezza la persona, E più largo il sudor di là gocciava. Polso non più di febbre. In sulla fine Levò la testa, si cibò; pareva Lieto: e il conoscimento gli rivenne, Perchè dicesse alla sua madre addio. Quasi lampo di fulmine tra’ nembi, Balenò la speranza. Eccolo a un tratto (Come per tocco subito si cade) Convulso, e morto. Un angelo pareva; Nè l’umor, che fe’ dentro strazio tanto, Toccò di fuori il delicato velo. Qual ti conobbi, o crëatura mia, T’ebbe la terra; e bello, quasimente Come lassù, nel mio pensier tu vivi. Perchè da tanto tempo era un’ambascia Il suo respir, quand’e’ cessò, nell’atto (Misera me!) di respirar mi parve: Morto il piangevo più quand’era vivo. Le cure estreme al corpicciuolo santo Render’io volli, e non negarmi madre; E dolorosamente essere, alquanto Ancor, nella sua muta compagnia. E quell’affaccendarmi intorno a lui M’inebrïava: come l’uom ferito, Che nel ferver della battaglia anela, E il mortal colpo che toccò, non sente. Subitamente con pietoso inganno Me lo tolser di casa: entrai; non c’era. L’agonia del lunghissimo patire Piena di sè m’aveva; e, nel pensiero Ch’e’ non patisse più, posando un poco, Tra stupida rimasi e consolata. Ma il cadavere poi, composto in pace, E la ghirlanda cinta a’ be’ capelli, Me lo risuscitava entro la mente (Forma tremenda): e allor sentii la morte. Come già nelle sue tenere membra, Or vita e morte entro al mio cuor pugnava. Apparir lui vedevo in ogni canto, In ogni voce la sua voce udivo: E tutta insieme d’abitanti vuota La casa, e tutto un gran silenzio intorno E morte mi parea: solo egli vivo. Mille pensieri, e un sol pensiero, i giorni; Le lunghe notti un sogno, e molti sogni; E que’ che lo rendeano alle mie braccia Sano, ma senza voce, i più crudeli. Care e crudeli, le memorie fide Ripetean sue parole a una a una; Ripetean, come specchio, ogni suo atto; Ma quello specchio raccoglieva i raggi, E, abbarbagliando, li facea brucenti. Più lontana nel tempo, e più distinta L’immagine veniva in fantasia; E il cuore e l’intelletto era fantasmi. Da poca polve io ritraevo, quasi Pallida nube in bei color dipinta, Una luminosa ombra; e non vedevo L’alto sol che di sè tutto colora. Fissi alla terra in una sepoltura Tenevo gli occhi: e la preghiera anch’essa, Vuoto bisbiglio o vagellar di sogni. Era un’intenta oblivïon la mia: A’ detti altrui non rispondevo, come Uomo intronato da dura percossa: Nè di così parer sentia vergogna; Chè, fuor di me, già non sentia me stessa. A chi men vivo in sè prova il dolore, Quand’anco il tuo dolor creda sincero E ci consenta, quei continui pianti Gli son pietà molesta. Il padre buono Del mio bambino consentia di cuore; Ma le mie mute lagrime, e l’inerte Travaglio lungo, gli mettea spavento. Prese consiglio di condurmi a’ miei, Alla casetta ove morì mia madre, Che ad esser m’insegnò consorte e madre. E ci andammo; e rividi il poderetto, Scarsa ma sacra eredità degli avi, Cui da sè davan opra i miei fratelli; Vidi la fonte ov’io (come si narra Di quelle antiche età), fanciulla allegra, Di gentil sangue, vereconda in atto, Con le fanciulle del paese attinsi: E quell’arido suolo a me rideva Più che giardino: e le accoglienze oneste De’ fratelli cugini e delle amiche, Eran rugiada che de’ lieti affetti Dischiuso il fiore in altro tempo avria. Ma, come l’uom che un male ha dentro, e muta Luoghi, e il riporta là onde si mosse; Così la piaga mia portavo in seno: Nè, per cari conforti, fu richiusa. La stanza in cui vissuto egli era e morto, Unico porto della vita mia. Al letticello che raccolse i suoi Sogni ridenti e gli ultimi sospiri, Io rivenivo, come fa la madre Dell’uccelletto, che riviene al nido, Vuoto lo trova, e gira intorno, e piange Pietosamente. Le gentili spoglie Erano (uso d’allor) sepolte in chiesa; Nè pianger potev’io sopra una pietra Amarissimamente a tutte l’ore, E mostrar le mie lagrime alla gente. E neppur nel solingo cimitero, Potend’ire a mio agio, ita sarei: Ha pure il suo pudor madre che piange. Del duol la vista è tedio ai non dolenti, Stizza ai dolenti il freddo sguardo altrui, Come d’uom cui tu parli e non t’intende. Vuol talor, ne’ suoi mali, il buono, anch’egli, Che debban tutti intenderlo; e, tiranno Di se stesso il dolor, d’altri è tiranno. Ma ora intendo il mio segreto, e veggo Che del mio lungo vaneggiar non era Tanto superbia in me, quanto vergogna; E che, scansando altrui, fuggìa me stessa. Stavo seduta a quel lettuccio accanto, Qual chi da lunga via stanco si posa, E nel riposo è più lasso che prima. Or come a vivo, or come a dianzi spento, O già morto da mesi e pur presente, Gli parlavo in pensiero o bisbigliando; Or dal sepolcro suo spuntar parea, Come da queto mar tremula stella, Ed or sotterra lampeggiando scendere Rapidamente, e me lasciar nel buio; Parea che dalle viscere dolenti Trarl’io volessi, e in lui rifar la vita Per poi disfarla: e disfacea me stessa. Sul guancial che lo resse agonizzante, La man tendea, com’uom che cerchi cosa Ch’era pur lì, nè di trovarla speri, E che la non ci sia si maraviglia. Un giorno (ahi ricordanza!) io stavo in atto D’accarezzar quel capo addolorato Tanto, e temendo pur di fargli offesa, Strinsi la mano, ed una ciocca fine Tra le dita sentii de’ suoi capelli, E abbrividii. Non so se l’uom che pesta Nel sentiero una serpe, o che rintoppa Un cadavere umano sanguinante, Inorridisca più. La fantasia, Ove il mal risiedeva, inaspettata Medicina mi diè (così vi piacque, Buono Iddio): dal terror nacque il rimorso: I’ pensai meco a un tratto: —E tu sei madre? Madre sei tu? Non hai due figli ancora? Un marito non hai, con cui partisti Tante fatiche? Non hai tu l’antica Suocera pia, che, afflitta, i suoi figliuoli Non allevò con ozïosi pianti, Vedova forte? I suoi capelli bianchi T’insegneranno a sostener la vita. — Vergogna ebbi di me. Poi soggiungevo: —Tu che tieni il dolor sacrata cosa, Tu profani il dolor: d’un angel santo Il tuo demonio fai. —Fuggii quel letto: Con tremor lo guardavo; e da quel canto, Come da luogo tentator, m’astenni. Tempestoso il malore, e tempestosa Venne la crisi: il rïaversi, lento. Non più giacente o respirar di vita L’immaginavo simile alla nostra; Ma sì, librato in alto a me rimpetto, Poter toccarlo mi parea con mano: Nè tendevo le braccia, paventando Mi s’appressasse: tra severo e mesto, Quel mite sguardo mi parea cipiglio; Più che lo sdegno, il suo dolor temevo. Nè sin allor pensai che il tapinarmi Mio gli spiacesse, nè il pensai beato; Come in nera vertigine, raccolta Ne’ miei delirii. Or ecco a poco a poco, Com’io mi levo più sovra me stessa, L’immagin sua più sollevarsi in alto, Più amorosa farsi e più serena. E più alto saliva, e, il dolce lume Che in lui dal cielo, e in me da lui, pioveva, Più vicino recandolo, ogni ciocca I’ discernevo de’ capei raggianti. Sublime alfin tra gli Angeli e tra’ Santi, E più vicino, il vidi; e tra’ maggiori Splendor’ distinto il suo, qual si distingue, Tra l’armonia di più sonore voci, Di cara voce il delicato accento. Col suo salir, mi rilevavo anch’io Da quella viva morte. Ero confusa, Com’uom ch’esce di carcere, e con brivido Sente l’aria alitar libera e pura. Venne un de’ giorni che de’ buoni antichi La provvida pietà (pietà de’ tanti Mali umani) alla Vergine consacra. Que’ giorni in chiesa, all’albeggiar, si canta, E, della gente poveretta in uso, Nella lingua del popolo si legge. Pregavo. E gli occhi nella dolce Madre Si posaron, che tiene il suo bambino: Di lì si furon volti al Crocifisso. Amor di quella sacrosanta vita, E di quell’alta morte, in un mi prese. Pensai nel bambinetto il morïente, Pensai la madre: e lei per luoghi strani Vedevo ansia scamparlo al re tiranno; E ricercarlo trepida smarrito, E rivederlo insanguinato e pesto Nella via della croce; e appiè del legno Nell’anima morir, ma senza pianto. — Uomo egli era — pensavo — ed era Dio; Ella innocente, eppur sofferse tanto. Forza chiese al soffrir; la chiese, e l’ebbe. Oh dolce Madre, anch’io la chieggo, e spero: Spero; ma prego voi che in me s’aiuti L’ancor poca mia languida speranza. — E fervente dall’anima pregai, Pe’ dolori di lei, per i dolori Del Figlio suo, pregai che il mio s’attuti. E tutti i giorni recitar promisi Cinque volte una prece. Ecco che dentro Crëarsi un nuovo spirito sentii, Come la donna, a cui per primo un moto Dalle viscere al cuor dice: — Sei madre. — Uscii mutata, e mi pareva il cielo E la terra all’aspetto esser mutati. Come alla chiesa andar, che ancora è notte; E lì tu preghi, e poi t’affacci, e miri Il sol novello illuminar le cose. Alle care domestiche faccende (Nè mai le smessi in tutto: i’ sarei morta) Tornai con brama, come l’uom che affretta A ricattar la molta ora perduta: Chè dagli acri piacer’, da’ fiacchi affanni Sicuro scampo è l’occupar noi stessi, Chiusi tenendo al reo nemico i varchi. D’umilïata tenerezza un’aura Sentivo in me, non di tristezza cupa. Così le nubi diradate il sole Vince modesto, e, somigliante a raggio Di luna, uguale in tutto il ciel si spande. E sopravvenner poi nuovi dolori. Se l’anima, da questo infievolita, Oltre al ver li apprendesse, i’ non saprei. Nè saprei dir se l’anima, per gusto D’angosciarsi a grand’arte, al corpo désse L’infermità che m’intristì la vita, E fosse l’error mio germe alla pena. Questo so, ch’ha terribili segreti Anco la gioia, e che il mistero asconde Fonti di luce: e Dio così ci vuole Insinüar, con umiltà, fidanza. So ch’io potevo assai peggio patire; E il non rendere a Dio grazie de’ guai Che pio mi risparmiava, era d’ingrata. Mi rimanevan due de’ sei figliuoli Ch’ebbi; e s’anco que’ due morti non vidi, Forse al poter lo debbo o a’ merti miei? È ver che da’ miei stanchi occhi lontano (Piaga che notte e dì nel cuor mi geme), Vive il mio primogenito; ma vive. È ver che, se quell’altro fosse meco, Che il ciel volle per sè, fosse la gioia Della mia casa, un gran conforto avrei: Ma, se infermo, infelice, e se non fosse (Buon Dio!) la gioia della casa mia? È ver che, quasi morto, il mio lontano Primogenito io piango, e non lo posso Pensar vivente ch’io non tremi a’ tanti Pericoli dell’esule sua vita, Della vagante povera sua vita, E dell’anima sua. Dio l’accompagni, Delle lagrime mie lo benedica; Gli dia consiglio, e cuor gli dia; gli mandi, Com’altr’Angel custode, il suo fratello.» Queste cose, a me vecchio, mia sorella Dice che nostra madre a lei diceva; Nell’ore malinconiche diceva, Quando richiama le memorie care, Quasi tesor da lunghi anni riposto, Il cuore, e s’apre a’ suoi; come da sera Ne’ silenzii sereni il rusignuolo Canta a riprese, e par che pensi il pianto. Io non le udii, da troppi anni lontano, E pellegrin per poco in casa mia. Però, circa il patir del suo bambino, Quel che di nostra madre è storia vera, Compii con quanto (e lo sappiam pur troppo) Suol nell’atroce malattia seguire. Ma cose avrei ben più pietose e vive, Se coglievo da lei quant’ella aveva, Nel suo figliuolo e in sè, provato e visto: Chè nessun occhio agguaglia occhio di madre. Cose da altri poi provate e viste Soggiungo, e al dolor vostro i’ le consacro, E al dolce nome, o benedetta madre. Chi, con in man lo scrutator coltello, Tenta (ch’altro non può l’arte superba, E il ferro è a lei quasi bastone al cieco) Entro la morte investigar la vita; Vide, que’ cranii pargoletti aprendo Come si suole aprir frutto bacato, Le membrane del cerebro corrose; Getti di sangue dentro, e trasudato Un luccicante umor come vernice, E, non atta a quagliar, limpida linfa; E ne’ nervi, che all’intimo cervello Portan dagli occhi i tremiti del raggio, Tubercoletti; e, per ingorghi, vide E lo stomaco leso e le intestina. Quando i rimedi a mitigar gli spasmi Lo stomaco rigetta, era sollievo La testa rasa ricoprir di ghiaccio. Se ad altri morbi (che de’ morbi arcana Nelle membra mortali è fratellanza) L’idrope cospirò, fidano allora Vincer lei, quasi agli altri ubbidïente; Ma tremendo signor, s’unica regni. Innanzi che mortifero si spanda, Quell’umore assorbir, poi la corrente, Languida e lenta ma senza mai posa, Derivar, se si può, saria salute. Ma come avvien che, diboscato il poggio, Cresce il fiume insolente, e in più canali Partirlo è indarno, chè nel letto antico Mugge superbo, e l’altre vie rïempie; Così l’umor tenace altri sentieri Si fa, la preda sua non abbandona. L’ire non placa, pasce la speranza Lo spesseggiar ne’ revellenti, e sangue, Anziché al braccio o al collo, al piè sottrarre Ma fu miglior soccorso i bianchi fiori Del sambuco, bolliti entro l’aceto, Farne di fumo al malatino un velo; Che il forte odore e il penetrabil bagno Scacci il fomite reo fuor d’ogni seno, Come l’api il vapor dal bugno snida. Tre volte accolto in suffumìgi il bagno, Voglion dìa vita; e che la vita intègri, Ritemprando ogni fibra, i vani empiendo, Poi, cogli estivi provvidi lavacri, E coll’ïodio suo, l’onda marina. Ma forse il caso, e meditate a lungo Esperïenze, e lagrime e preghiere, Qualche sostanza troveran che porti La virtù dell’ïodio o altra ignota (Elettrico e calor non è strumento Alle tue più secrete opre, Natura), Vibrante nel magnetico e nel lume, Che (viva) operi a tempo in membra vive. Così di pura vena acqua, che sotto Alla sonante correntìa del fiume Da più secoli tacita veniva, Se punta infitta, di forza scendendo, Fori e le apra una via, farà che in alto Spicci insperata e limpida zampilli. A voi rivengo, o madre, oh madre, oh santa, E de’ miei meglio affetti ispiratrice! Quella preghiera che ogni dì ridire Voi prometteste, or dopo sessant’anni Ridice il figlio vostro, e lascia questa Eredità di fede a’ figli suoi. Già da secoli molti, in quanto ha il mondo Di più civile, il pan quotidïano Della povera gente è la parola «Padre nostro,» e l’angelico saluto, E la «Gloria» all’Iddio trino ed eterno. Le amarezze innocenti a voi non parve Saper gustare: or che dovrò dir io Che d’amarezze ree colsi veleno? Oh madre mia, siccome il vostro anello, Sacra memoria, sul mio petto io porto, Vostre virtù così portassi in cuore! Madre, in ammenda che patir non seppi Per me, potessi per altrui patire, E dir senza menzogna a’ miei figliuoli: — Quanta misura di penar verrebbe A’ buoni, o anco a’ rei, per noi chiediamo, Privilegio gentil, tesoro santo. Gesù pur volle ogni misura nostra Per sè, pigiata e colma e riboccante! Le ricordanze de’ portati affanni, Se pazïenza de’ suoi rai li abbella, Saran ghirlande in cui da sè verranno A congegnarsi i fior’ del paradiso. 1872.