Il portale Carte Tommaseo online mette a disposizione di studiosi e interessati materiali e risorse relativi alla figura e all'opera dello scrittore e linguista Niccolò Tommaseo. Consulta i cataloghi e gli inventari, sfoglia le collezioni digitali, accedi alle pubblicazioni.
Materiali d'archivio
Fondo Tommaseo della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Conosci e consulta tutte le novità relative al mondo di Niccolò Tommaseo. Il portale Carte Tommaseo online consente agli studiosi e agli appassionati di essere costantemente aggiornati sulle iniziative e sulle pubblicazioni riguardanti lo scrittore.
Eventi
Conosci le iniziative d'argomento tommaseano organizzate nel tempo
Accedi a vari percorsi tematici e ad approfondimenti relativi alla figura e all'opera di Tommaseo.
Il portale Carte Tommaseo online presenta e mette a disposizione elaborati utili agli specialisti, ma anche studi e materiali da utilizzare per finalità didattiche.
Niccolò Tommaseo et Nantes: mostra allestita in occasione del convegno internazionale di studi Tommaseo europeo per il 150° anniversario della morte di Niccolò Tommaseo(1802-1874)
Una madre
«Di due mie bambinette e d’un bambino,Tre angeli il Signor fatti n’avea.Giovane allora, ero pur madre: e piansi;Ma non sapevo ancor quanto potesseNelle materne viscere l’amore.Ah non è ver che sempre i colpi primiSiano i più duri, e nel patir si facciaL’uom più forte al patir. Grande mistero,L’anima, nuova a sè resta e diventa;Scopre in sè nuovi cieli e nuovi abissi.De’ tre vivi il minore era Tommaso;Questi d’un fratel mio portava il nome,E d’un cognato d’innocente vitaE venerando in gioventù, consuntoDi tisi innanzi che all’altar potesseLe nozze benedir de’ due cugini:Chè mia madre a suo padre era sorella.Una disgrazia già segnati aveaDi questo mio bambino i teneri anni.Fitti son di pericoli quegli anni;Come chi va per sdrucciolevol via,Che mal si regge; e, a dritta e a manca, abisso.Or la donna di casa alla finestraLo teneva affacciato, che respiriUn po’ di luce, e per veder le cose:Chè quell’età con gli occhi impara e pensa.Ella godea del suo gioire; e buonaEra: ma come riparare a tutto,Gente di fuori, se non può la madre?Lui, brillando a quel limpido sereno,Come per arrivar cosa distanteChe accosta par, quasi spiccasse un volo,Sguizza di tra le braccia. Un punto, ed eraSfragellato deforme in sulla via.Il capo in giù, tutto il corpo nel vano;Quella da un piede lo prende atterrita,E me lo rende. Ma di quel momento,Rapido come lampo, a lui doveaNel piede infermo e nell’anima mestaIl segno rimaner fino alla morte.Restar poteva più imperfetto assai;Ma l’un piè non posava in dirittura,E coll’altro all’andar non consentiva.Guardar nel suo figliuolo a cuor di madreÈ tenerezza; ma, quand’io posavoL’occhio su lui, della gentil personaQuello vedevo sol, che mi traesseAl terror di quel punto: e il mio pensieroPer tutte le giornate di sua vita,Come per solitudine, scorreva.Troppo sappiam che a vizii e a colpe infami,Se ben portate e a garbo, hanno soventeCarezze allegre; al più leggier difettoGhigno e dispregi, gli uomini crudeli.E tremavo per l’anima innocente,Che nel corruccio dell’offese altruiInacerbisca, e, prevenendo, avventiNel sospettato schernitor gli scherni.Ma non capiva invidia o stizza in cuoreDel poveretto mio. Gli altri fanciulliVispi vedendo e gai, li rimiravaCon mite, e pien di lacrime, sorriso.Così patito fiorellino accoglieDel mattin la rugiada, e par che pianga.Mesto e sereno (come in cielo, appenaVelato, i raggi dell’albor sull’acqueSprizzano, e come l’iride dipingeLe nuvolette in timidi colori)Crebbe infino ai sett’anni. Io dell’ingegnoNon so; ma un’aria di pensoso senno,Un più che verginal raccoglimento,Un intelletto di pudor, facevaLui venerando nell’età fanciulla.Schivo senz’uggia, e delle umane cose,Quasi provate, penetrando il vano,Sentir pareva per sublime istintoStanchezza della terra, amor del cielo.Già ti chiamava il cielo, o figliuol mio,Per la via de’ dolori! È gran mistero,Gran mistero il dolor degl’innocenti.Il soffrir loro a noi soffrire insegni,C’insegni a far con opra e con preghieraCh’altri innocente non patisca tanto.Alla fronte gravezza, indi doloriFieri al capo, e vertigini; e frequente,Poi più rimesso, il polso, e poi più rapido;E dilatata la pupilla, e i nerviConvulsi a scosse. E’ parean bachi, ed era(Povero figliuol mio, terrore a dirsi!)L’idrope del cervello. Invade il seggioProprio al pensiero, e pur lascia il pensieroSenta i morsi di morte a uno a uno.Entrò strisciando tacita la morte.Spento così nessun della famiglia:Nè l’arte, nè il cuor mio, non se ne addava;Sano l’aspetto, e il ritondetto visoFra il candor brunettino e un bel vermiglio.Parve per poco alleggerir la testaL’enfiar de’ piedi: e allora al suo difettoRecai, pensando, la cagion del male;E più acre che mai sentii rimorso,Che non lo seppi custodire, io madre.Sogni infelici. Il lento umor nemicoRiserpeggiò tornando onde si mosse,A trasudar del cranio tenerelloPer tutti gli spiragli, e impregnar l’ossa;Di corrente vital, vetroso stagno.Dicon che un’aria più leggiera e vivaPuò rïaverli: ma chi sente in tempoL’insidie mute? E quella prova anch’essaPar cada a vuoto; e par, checchè si faccia,Che di diciotto appena uno ne campi.Ma il poverino mio non fu quell’uno.Parea tranquillo: ed ecco ad ora ad ora,Com’acqua che turbata si rincrespi,Tutta alterarsi, e rimaner la facciaQuasi da lungo malore abbattuta.Nel compresso cervello avviticchiate,La lenta morte e l’ancor piena vitaIncominciavan già fiera battaglia.Ogni leggier rumore, ed anco il raggioDesiderato della cara luce,Noia ed offesa a lui; gli occhi in dolore,E sconvolti e sporgenti, guatar losco.Quando, com’uom ch’ansio ricerca il veroE lo teme, i suoi sonni interrogavo,L’occhio di sotto alle palpèbre, mezzoChiuso, rotava, e mi facea paura.Scuoter del capo, e brividi, e di febbreCapricci a sbalzi, e un agitarsi spesso;E ai sussulti succedere languori,Qual di persona da gran male stanca.Ma, come fiotta il mar, caduto il vento,E la barchetta debole mal certaNon sa se turbin nuovo ancor minacci;In quel riposo, era, o parea, tempesta.Pur l’innocente spirito sereno(Docile più che quella età non suole,Ch’ai rimedi fa guerra) affetto e paceMetteva intorno a sè, di raggi in guisa;E si leggea negli atti püeriliLa pazïenza di virtù pensosa.Non pur nel capo lo ferìan doloriE nel collo e nel petto e nelle spalle;Nello stomaco ancor molto il tormento,Chè nè cibo reggea nè medicina.M’era ferro alle viscere il sommessoGemito; e il suo dirugginar de’ denti,Fremito a me: chè, più ch’egli in se stessoNon si sentisse, i’ mi sentivo in lui.Non saprei dir qual più pietoso fosse,Il letargo o il delirio, e dal letargoIl risentirsi con acute grida;O nel delirio, a me più memorande,Le languide parole affettüose.Dopo l’accesso violento, aveaPace nel viso, e il guardo intenso, comeDi contemplante in estasi rapito.La parola perdè, perdè la vista,E il senso interno, e mezza la persona,E più largo il sudor di là gocciava.Polso non più di febbre. In sulla fineLevò la testa, si cibò; parevaLieto: e il conoscimento gli rivenne,Perchè dicesse alla sua madre addio.Quasi lampo di fulmine tra’ nembi,Balenò la speranza. Eccolo a un tratto(Come per tocco subito si cade)Convulso, e morto. Un angelo pareva;Nè l’umor, che fe’ dentro strazio tanto,Toccò di fuori il delicato velo.Qual ti conobbi, o crëatura mia,T’ebbe la terra; e bello, quasimenteCome lassù, nel mio pensier tu vivi.Perchè da tanto tempo era un’ambasciaIl suo respir, quand’e’ cessò, nell’atto(Misera me!) di respirar mi parve:Morto il piangevo più quand’era vivo.Le cure estreme al corpicciuolo santoRender’io volli, e non negarmi madre;E dolorosamente essere, alquantoAncor, nella sua muta compagnia.E quell’affaccendarmi intorno a luiM’inebrïava: come l’uom ferito,Che nel ferver della battaglia anela,E il mortal colpo che toccò, non sente.Subitamente con pietoso ingannoMe lo tolser di casa: entrai; non c’era.L’agonia del lunghissimo patirePiena di sè m’aveva; e, nel pensieroCh’e’ non patisse più, posando un poco,Tra stupida rimasi e consolata.Ma il cadavere poi, composto in pace,E la ghirlanda cinta a’ be’ capelli,Me lo risuscitava entro la mente(Forma tremenda): e allor sentii la morte.Come già nelle sue tenere membra,Or vita e morte entro al mio cuor pugnava.Apparir lui vedevo in ogni canto,In ogni voce la sua voce udivo:E tutta insieme d’abitanti vuotaLa casa, e tutto un gran silenzio intornoE morte mi parea: solo egli vivo.Mille pensieri, e un sol pensiero, i giorni;Le lunghe notti un sogno, e molti sogni;E que’ che lo rendeano alle mie bracciaSano, ma senza voce, i più crudeli.Care e crudeli, le memorie fideRipetean sue parole a una a una;Ripetean, come specchio, ogni suo atto;Ma quello specchio raccoglieva i raggi,E, abbarbagliando, li facea brucenti.Più lontana nel tempo, e più distintaL’immagine veniva in fantasia;E il cuore e l’intelletto era fantasmi.Da poca polve io ritraevo, quasiPallida nube in bei color dipinta,Una luminosa ombra; e non vedevoL’alto sol che di sè tutto colora.Fissi alla terra in una sepolturaTenevo gli occhi: e la preghiera anch’essa,Vuoto bisbiglio o vagellar di sogni.Era un’intenta oblivïon la mia:A’ detti altrui non rispondevo, comeUomo intronato da dura percossa:Nè di così parer sentia vergogna;Chè, fuor di me, già non sentia me stessa.A chi men vivo in sè prova il dolore,Quand’anco il tuo dolor creda sinceroE ci consenta, quei continui piantiGli son pietà molesta. Il padre buonoDel mio bambino consentia di cuore;Ma le mie mute lagrime, e l’inerteTravaglio lungo, gli mettea spavento.Prese consiglio di condurmi a’ miei,Alla casetta ove morì mia madre,Che ad esser m’insegnò consorte e madre.E ci andammo; e rividi il poderetto,Scarsa ma sacra eredità degli avi,Cui da sè davan opra i miei fratelli;Vidi la fonte ov’io (come si narraDi quelle antiche età), fanciulla allegra,Di gentil sangue, vereconda in atto,Con le fanciulle del paese attinsi:E quell’arido suolo a me ridevaPiù che giardino: e le accoglienze onesteDe’ fratelli cugini e delle amiche,Eran rugiada che de’ lieti affettiDischiuso il fiore in altro tempo avria.Ma, come l’uom che un male ha dentro, e mutaLuoghi, e il riporta là onde si mosse;Così la piaga mia portavo in seno:Nè, per cari conforti, fu richiusa.La stanza in cui vissuto egli era e morto,Unico porto della vita mia.Al letticello che raccolse i suoiSogni ridenti e gli ultimi sospiri,Io rivenivo, come fa la madreDell’uccelletto, che riviene al nido,Vuoto lo trova, e gira intorno, e piangePietosamente. Le gentili spoglieErano (uso d’allor) sepolte in chiesa;Nè pianger potev’io sopra una pietraAmarissimamente a tutte l’ore,E mostrar le mie lagrime alla gente.E neppur nel solingo cimitero,Potend’ire a mio agio, ita sarei:Ha pure il suo pudor madre che piange.Del duol la vista è tedio ai non dolenti,Stizza ai dolenti il freddo sguardo altrui,Come d’uom cui tu parli e non t’intende.Vuol talor, ne’ suoi mali, il buono, anch’egli,Che debban tutti intenderlo; e, tirannoDi se stesso il dolor, d’altri è tiranno.Ma ora intendo il mio segreto, e veggoChe del mio lungo vaneggiar non eraTanto superbia in me, quanto vergogna;E che, scansando altrui, fuggìa me stessa.Stavo seduta a quel lettuccio accanto,Qual chi da lunga via stanco si posa,E nel riposo è più lasso che prima.Or come a vivo, or come a dianzi spento,O già morto da mesi e pur presente,Gli parlavo in pensiero o bisbigliando;Or dal sepolcro suo spuntar parea,Come da queto mar tremula stella,Ed or sotterra lampeggiando scendereRapidamente, e me lasciar nel buio;Parea che dalle viscere dolentiTrarl’io volessi, e in lui rifar la vitaPer poi disfarla: e disfacea me stessa.Sul guancial che lo resse agonizzante,La man tendea, com’uom che cerchi cosaCh’era pur lì, nè di trovarla speri,E che la non ci sia si maraviglia.Un giorno (ahi ricordanza!) io stavo in attoD’accarezzar quel capo addoloratoTanto, e temendo pur di fargli offesa,Strinsi la mano, ed una ciocca fineTra le dita sentii de’ suoi capelli,E abbrividii. Non so se l’uom che pestaNel sentiero una serpe, o che rintoppaUn cadavere umano sanguinante,Inorridisca più. La fantasia,Ove il mal risiedeva, inaspettataMedicina mi diè (così vi piacque,Buono Iddio): dal terror nacque il rimorso:I’ pensai meco a un tratto: —E tu sei madre?Madre sei tu? Non hai due figli ancora?Un marito non hai, con cui partistiTante fatiche? Non hai tu l’anticaSuocera pia, che, afflitta, i suoi figliuoliNon allevò con ozïosi pianti,Vedova forte? I suoi capelli bianchiT’insegneranno a sostener la vita. —Vergogna ebbi di me. Poi soggiungevo:—Tu che tieni il dolor sacrata cosa,Tu profani il dolor: d’un angel santoIl tuo demonio fai. —Fuggii quel letto:Con tremor lo guardavo; e da quel canto,Come da luogo tentator, m’astenni.Tempestoso il malore, e tempestosaVenne la crisi: il rïaversi, lento.Non più giacente o respirar di vitaL’immaginavo simile alla nostra;Ma sì, librato in alto a me rimpetto,Poter toccarlo mi parea con mano:Nè tendevo le braccia, paventandoMi s’appressasse: tra severo e mesto,Quel mite sguardo mi parea cipiglio;Più che lo sdegno, il suo dolor temevo.Nè sin allor pensai che il tapinarmiMio gli spiacesse, nè il pensai beato;Come in nera vertigine, raccoltaNe’ miei delirii. Or ecco a poco a poco,Com’io mi levo più sovra me stessa,L’immagin sua più sollevarsi in alto,Più amorosa farsi e più serena.E più alto saliva, e, il dolce lumeChe in lui dal cielo, e in me da lui, pioveva,Più vicino recandolo, ogni cioccaI’ discernevo de’ capei raggianti.Sublime alfin tra gli Angeli e tra’ Santi,E più vicino, il vidi; e tra’ maggioriSplendor’ distinto il suo, qual si distingue,Tra l’armonia di più sonore voci,Di cara voce il delicato accento.Col suo salir, mi rilevavo anch’ioDa quella viva morte. Ero confusa,Com’uom ch’esce di carcere, e con brividoSente l’aria alitar libera e pura.Venne un de’ giorni che de’ buoni antichiLa provvida pietà (pietà de’ tantiMali umani) alla Vergine consacra.Que’ giorni in chiesa, all’albeggiar, si canta,E, della gente poveretta in uso,Nella lingua del popolo si legge.Pregavo. E gli occhi nella dolce MadreSi posaron, che tiene il suo bambino:Di lì si furon volti al Crocifisso.Amor di quella sacrosanta vita,E di quell’alta morte, in un mi prese.Pensai nel bambinetto il morïente,Pensai la madre: e lei per luoghi straniVedevo ansia scamparlo al re tiranno;E ricercarlo trepida smarrito,E rivederlo insanguinato e pestoNella via della croce; e appiè del legnoNell’anima morir, ma senza pianto.— Uomo egli era — pensavo — ed era Dio;Ella innocente, eppur sofferse tanto.Forza chiese al soffrir; la chiese, e l’ebbe.Oh dolce Madre, anch’io la chieggo, e spero:Spero; ma prego voi che in me s’aiutiL’ancor poca mia languida speranza. —E fervente dall’anima pregai,Pe’ dolori di lei, per i doloriDel Figlio suo, pregai che il mio s’attuti.E tutti i giorni recitar promisiCinque volte una prece. Ecco che dentroCrëarsi un nuovo spirito sentii,Come la donna, a cui per primo un motoDalle viscere al cuor dice: — Sei madre. —Uscii mutata, e mi pareva il cieloE la terra all’aspetto esser mutati.Come alla chiesa andar, che ancora è notte;E lì tu preghi, e poi t’affacci, e miriIl sol novello illuminar le cose.Alle care domestiche faccende(Nè mai le smessi in tutto: i’ sarei morta)Tornai con brama, come l’uom che affrettaA ricattar la molta ora perduta:Chè dagli acri piacer’, da’ fiacchi affanniSicuro scampo è l’occupar noi stessi,Chiusi tenendo al reo nemico i varchi.D’umilïata tenerezza un’auraSentivo in me, non di tristezza cupa.Così le nubi diradate il soleVince modesto, e, somigliante a raggioDi luna, uguale in tutto il ciel si spande.E sopravvenner poi nuovi dolori.Se l’anima, da questo infievolita,Oltre al ver li apprendesse, i’ non saprei.Nè saprei dir se l’anima, per gustoD’angosciarsi a grand’arte, al corpo désseL’infermità che m’intristì la vita,E fosse l’error mio germe alla pena.Questo so, ch’ha terribili segretiAnco la gioia, e che il mistero ascondeFonti di luce: e Dio così ci vuoleInsinüar, con umiltà, fidanza.So ch’io potevo assai peggio patire;E il non rendere a Dio grazie de’ guaiChe pio mi risparmiava, era d’ingrata.Mi rimanevan due de’ sei figliuoliCh’ebbi; e s’anco que’ due morti non vidi,Forse al poter lo debbo o a’ merti miei?È ver che da’ miei stanchi occhi lontano(Piaga che notte e dì nel cuor mi geme),Vive il mio primogenito; ma vive.È ver che, se quell’altro fosse meco,Che il ciel volle per sè, fosse la gioiaDella mia casa, un gran conforto avrei:Ma, se infermo, infelice, e se non fosse(Buon Dio!) la gioia della casa mia?È ver che, quasi morto, il mio lontanoPrimogenito io piango, e non lo possoPensar vivente ch’io non tremi a’ tantiPericoli dell’esule sua vita,Della vagante povera sua vita,E dell’anima sua. Dio l’accompagni,Delle lagrime mie lo benedica;Gli dia consiglio, e cuor gli dia; gli mandi,Com’altr’Angel custode, il suo fratello.»Queste cose, a me vecchio, mia sorellaDice che nostra madre a lei diceva;Nell’ore malinconiche diceva,Quando richiama le memorie care,Quasi tesor da lunghi anni riposto,Il cuore, e s’apre a’ suoi; come da seraNe’ silenzii sereni il rusignuoloCanta a riprese, e par che pensi il pianto.Io non le udii, da troppi anni lontano,E pellegrin per poco in casa mia.Però, circa il patir del suo bambino,Quel che di nostra madre è storia vera,Compii con quanto (e lo sappiam pur troppo)Suol nell’atroce malattia seguire.Ma cose avrei ben più pietose e vive,Se coglievo da lei quant’ella aveva,Nel suo figliuolo e in sè, provato e visto:Chè nessun occhio agguaglia occhio di madre.Cose da altri poi provate e visteSoggiungo, e al dolor vostro i’ le consacro,E al dolce nome, o benedetta madre.Chi, con in man lo scrutator coltello,Tenta (ch’altro non può l’arte superba,E il ferro è a lei quasi bastone al cieco)Entro la morte investigar la vita;Vide, que’ cranii pargoletti aprendoCome si suole aprir frutto bacato,Le membrane del cerebro corrose;Getti di sangue dentro, e trasudatoUn luccicante umor come vernice,E, non atta a quagliar, limpida linfa;E ne’ nervi, che all’intimo cervelloPortan dagli occhi i tremiti del raggio,Tubercoletti; e, per ingorghi, videE lo stomaco leso e le intestina.Quando i rimedi a mitigar gli spasmiLo stomaco rigetta, era sollievoLa testa rasa ricoprir di ghiaccio.Se ad altri morbi (che de’ morbi arcanaNelle membra mortali è fratellanza)L’idrope cospirò, fidano alloraVincer lei, quasi agli altri ubbidïente;Ma tremendo signor, s’unica regni.Innanzi che mortifero si spanda,Quell’umore assorbir, poi la corrente,Languida e lenta ma senza mai posa,Derivar, se si può, saria salute.Ma come avvien che, diboscato il poggio,Cresce il fiume insolente, e in più canaliPartirlo è indarno, chè nel letto anticoMugge superbo, e l’altre vie rïempie;Così l’umor tenace altri sentieriSi fa, la preda sua non abbandona.L’ire non placa, pasce la speranzaLo spesseggiar ne’ revellenti, e sangue,Anziché al braccio o al collo, al piè sottrarreMa fu miglior soccorso i bianchi fioriDel sambuco, bolliti entro l’aceto,Farne di fumo al malatino un velo;Che il forte odore e il penetrabil bagnoScacci il fomite reo fuor d’ogni seno,Come l’api il vapor dal bugno snida.Tre volte accolto in suffumìgi il bagno,Voglion dìa vita; e che la vita intègri,Ritemprando ogni fibra, i vani empiendo,Poi, cogli estivi provvidi lavacri,E coll’ïodio suo, l’onda marina.Ma forse il caso, e meditate a lungoEsperïenze, e lagrime e preghiere,Qualche sostanza troveran che portiLa virtù dell’ïodio o altra ignota(Elettrico e calor non è strumentoAlle tue più secrete opre, Natura),Vibrante nel magnetico e nel lume,Che (viva) operi a tempo in membra vive.Così di pura vena acqua, che sottoAlla sonante correntìa del fiumeDa più secoli tacita veniva,Se punta infitta, di forza scendendo,Fori e le apra una via, farà che in altoSpicci insperata e limpida zampilli.A voi rivengo, o madre, oh madre, oh santa,E de’ miei meglio affetti ispiratrice!Quella preghiera che ogni dì ridireVoi prometteste, or dopo sessant’anniRidice il figlio vostro, e lascia questaEredità di fede a’ figli suoi.Già da secoli molti, in quanto ha il mondoDi più civile, il pan quotidïanoDella povera gente è la parola«Padre nostro,» e l’angelico saluto,E la «Gloria» all’Iddio trino ed eterno.Le amarezze innocenti a voi non parveSaper gustare: or che dovrò dir ioChe d’amarezze ree colsi veleno?Oh madre mia, siccome il vostro anello,Sacra memoria, sul mio petto io porto,Vostre virtù così portassi in cuore!Madre, in ammenda che patir non seppiPer me, potessi per altrui patire,E dir senza menzogna a’ miei figliuoli:— Quanta misura di penar verrebbeA’ buoni, o anco a’ rei, per noi chiediamo,Privilegio gentil, tesoro santo.Gesù pur volle ogni misura nostraPer sè, pigiata e colma e riboccante!Le ricordanze de’ portati affanni,Se pazïenza de’ suoi rai li abbella,Saran ghirlande in cui da sè verrannoA congegnarsi i fior’ del paradiso.1872.