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Fondo Tommaseo della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
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Niccolò Tommaseo et Nantes: mostra allestita in occasione del convegno internazionale di studi Tommaseo europeo per il 150° anniversario della morte di Niccolò Tommaseo(1802-1874)
(Il soggetto non è storico, ma conforme alla storia de’ tempi; che non sono, come ognun vede, quelli del San Zanobi vescovo di Firenze.)
Verso il monte ascendean dalla pianuraChe lungo il tuo bel fiume, Arno, dechina.L’ombra involvea le falde, in sull’alturaL’ aure godean la luce mattutina.Or appariano ed or tra la verzuraSi nascondean, la salmodia divinaCantando a due a due la turba pia;E il vescovo Zanobi li seguia.Benedicean la terra, e buona annataChiedeva il pio colono al buon Signore.La primavera sorridea beata,E tutta la campagna era un amore;E, di pioggie recenti consolata,Si rinverdiva nell’amato umoreOgni ùmil fronda, ogni foglia novella,E dire un inno a Dio pareva anch’ella.Nel pensar che i figli vostriFieno, o Padre, liberati,Si sentîro i pensier’ nostriConsolati. Sulla lingua i lieti accentiAbbondâr dal cuore espressi.Fu il Signor, diran le genti,Grande in essi.Il Signor fu grande in noi:La letizia nostra è piena.Togli, o Padre, i cari tuoiDi catena.Il torrente innondatoreL’ire omai del flutto ha quete.L’uom che semina in dolore,Gioia miete.Mesti andavan seminandoLor sementa: ed or verranno,E, i manipoli portando,Gioiranno.Seguitavan chiamando in lor preghiera,Angeli, il vostro nome, e il tuo, Maria;E il Battista, pensosa anima austera,E tutti che sperâr certo il Messia;E gl’Innocenti, pargoletta schiera;E i Dodici da Pier fino a Mattia;E i Romiti, e i Dottor’ di sacre cose,E i Martiri, e le Donne affettuose.Alto levaiGli occhi, e pregai,A te che in cielDimore,Come famiglioTien fiso il ciglioAl suo fedelSignore.Come serventeGuarda umilmenteLa donna suaCh’ell’ama;Il nostro amoreGuarda, o Signore,La faccia tuaCon brama.Pietà, buon Dio,L’onta c’empioD’un duolo acerboA morte.D’onta e di penaNostr’alma è piena,Scherno al superboE al forte.Giungeano a passo lento in cima al colleOve mostra sue croci e biancheggianteLa cattedral di Fiesole s’estolleTra ’l verde lieto delle folte piante.Inginocchion sulle sudate zolleStavan di molte donne al tempio innante:E ve n’avea di condizion servile,Mancipii del palazzo vescovile.Una, che, nuda il piè, pallida il viso,Rossa i labbri, e del corpo estenuata,Gli occhi di mesta pace, e d’un sorrisoDi pazïente amor le labbra ornata,Con le man giunte, al ciel guardando fiso,Pregava basso con voce accorata,E, tra nero e sanguigno, avea suggello,Sovra le ciglia, di servil flagello,Al vescovo Zanobi diè negli occhi,Mentre la man tendea benedicente:Poi dentro in chiesa videla in ginocchi,Romita in sè, pregar ferventemente.Non può, vedendo, che pietà nol tocchi:Così, se in acqua od in vetro lucenteRaggio penètra, il suo baglior divide,E in modesti color’ vario sorride.Compiuto delle preci il ministero,Il vescovo Zanobi per lei manda.Nuovi dolor’ nel trepido pensieroVolge l’afflitta, e a Dio si raccomanda.Egli con volto tra mite ed austeroLa guarda appena, e, — chi se’ tu? —domanda.Dice la giovanetta: — i’ son lucchese,Senza padre nè madre; e ho nome Agnese. —— Forse di servo nata? — Oh no, signore:Ingenua, grazie a Dio, la stirpe mia.E mio padre era un povero aratoreDi campicel non suo, lungo la viaChe mette alla città. Quando il SignoreCi percosse dell’aspra carestia;E’ patì tanto, e sì le forze afflittePer campar noi logrò, che ne moritte. —Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Tutta nel suo pensier si stette alquanto;Egli pietoso in lei lo sguardo fisse:— Segui, infelice. - Ed ella: - orfano, accanto...—E arrossiva e piangeva: e più non disse.— Orfano, tu dicevi? Accheta il pianto;Dimmi il nuovo dolor che ti trafisse.Parli a chi ti compiange: apri il tuo cuore:Non il signor, t’ascolta il tuo Pastore. —— Orfano, accanto al nostro poderetto,Un giovanetto povero vivea. —Qui si tacque: e ’l Pastor, pio nell’aspetto,— Segui, figliuola. — Agnese rispondea:«La madre e il padre mio, quel giovanettoChiamavan sempre all’opre: io ne godea.Come figliuolo suo l’amavan quelli,E no’ due ci amavan come fratelli.Quando vide portarsi in chiesa il padre,Non fu men alto il suo del nostro strido.Poscia de’ suoi sudor’ me con mia madreMantenea, di dì ’n dì sempre più fido.Ma la fame crescea. Quando le squadreSotto l’insegna dell’Augusto Guido,Di marchigiana gente e di franceseE di toscana nostra, armarsi intese;Pensò che meglio con l’opra guerriera(Misere noi!) ci avria fornito un pane;E ci lasciò solette a primavera,Per far la guerra in contrade lontane.E combattè nella battaglia fieraDove tedesche genti e friulaneFuggiro, è fama, come al vento nebbia,Là presso un fiume che si chiama Trebbia.Quando si seppe noi della vittoria,Ah che gioioso dì, signor, fu quello!— Egli riviene a noi, nè senza gloria:Lo rivedrem — dicevo — il mio fratello. —I’ vidi ritornar (fiera memoria!)Ricchi di preda que’ del suo drappello,Empiendo i campi e il ciel di lieti gridiChe mi ferìano il cor: ma lui non vidi.Seppi che, nel fervor della battaglia,Toccata il prode non avea ferita:Ma tra’ fuggenti, misero! si scaglia,E, stretto in mezzo a lor, perdè la vita.A noi due poverette, orbe in gramaglia,La gente, a’ mali nostri impietosita,Povera anch’essa, alcun soccorso dava;Ma la fame crudel continuava.E mia madre.... Or non più. Che importa a voiDi me meschina e della mia sventura? —— Segui, diss’egli, e narra i dolor’ tuoi.Anche in me le sue piaghe aprì natura. —Tacque ella un poco, lagrimando; e poi:— Dal tapinar della sua crëatura,Più che dal suo, mia madre consumata,Dopo molto languir cadde malata.Per procacciarle un po’ di pane asciutto,Sola nel letto lasciarla i’ dovea.Ella metteasi inginocchioni, e tuttoQuel tempo lo pregava e lo piangea.Queste parole: benedetto il fruttoDelle viscere tue, sempre dicea:Ora, o Madre di Dio, per noi meschineAdesso e all’ora della nostra fine.Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Una mattina i’ esco, in sulla viaMi metto, e tutto il santo giorno attendoChi un poco di pan per lei mi dia;Torno la sera a lei, per man la prendo:E, — piuttosto, le dico, o madre mia,Che vedervi languir, vado e mi vendo.Avremo almen così due soldi d’oro,Che, se mi campan voi, sono un tesoro.—La derelitta le tremanti bracciaMi cinge al collo singhiozzando, e strettaCon quanta forza avea, stretta m’abbraccia:— Il buon Gesù, dicendo, o benedetta,Premio a tua carità trovar ti faccia.I’ sono in fine. Oh non lasciarmi! aspettaTanto che la mia ultima parolaSpiri nel bacio della mia figliuola. —Ma volle almen Gesù farle più lieveL’ultimo passo con alcun conforto.Venne il pievan della vicina pieveA confortarla (il nostro era già morto);E, dalla sua bontà scaltrito, in breveSi fu della miseria nostra accorto.Dar le potetti un po’di cibo, ed ancheCon vino inumidir le labbra bianche.Dicendo, — Iddio rimanga teco, Agnese, —Entrò soavemente in agonia:E come un sonno languido la prese,E spirò mormorando Ave Maria.Ma la benedizion dal ciel non sceseSu me con il tuo prego, o madre mia! —E il vescovo: — figliuola, allor più pioÈ quand’appar vie più sdegnato, Iddio.Crebbe la fame (non è vero?), ed haiPiegata al giogo la libera fronte. —— Mia madre e mie sorelle erano omaiNudità, fame, sete, insidie ed onte.Senza pianto il terren caro lasciai,E venni alla ventura a questo monte:E servir chiesi, e nelle forme usateToglier lasciâmi la mia libertate.La moneta, mio prezzo, se n’è itaIn suffragio dell’anima di lei.Nuova degli usi, fuor di me, sfinita,Mal compir le servili opre potei.Quando vide il signor che di mia vitaTroppo misera usura gli darei,Mi mandò sul mercato; e compratoreNuovo il castaldo vostro ebbi, signore.»— Io gli ho pur, disse il vescovo, interdettoVerso i miei servi usar punto angheria:E qualcuno comprar gliene permettoPerch’abbian qui più mite signoria.Di lividi segnato alcun soggettoDi Zanobi Pastor non vo’ che sia. —Agnese allor: — degna di pena, o buonoSignor, ben più che non crediate, io sono.Una stanca tristezza obblivïosaMi prende; e in mezzo del lavor mi seggio,E guardo il cielo e piango, e in dolorosaCalma, fremente di pensier’, vaneggio.Al castaldo, che un dì non so che cosaMi rimbrottava fra sdegno e dileggio,Io, del servil tacere ancor non dotta,Risposi male, e n’ebbi questa botta.—— Soffri ’l gastigo e il nuovo stato in pace,Disse Zanobi, e con Dio ti consola.Se non puoi la fatica, o s’altri audaceOnta ti fa, ricorri a me, figliuola. —Ella, lo sguardo fiso a terra, tace;Poi, quasi vergognando, a lui s’invola.Segue con gli occhi il vescovo pietosoLa già lontana, e si riman pensoso.Da quel dì, lei venir delle più pronteAlla chiesa, e in un canto orar vedea,E dal seren della percossa fronteSparir la tetra margine godea.Se s’incontrava in lei scendendo il monte,Brevi parole umane le dicea:Ma con tutti del par buono e corteseServi e serve parea, che con Agnese.La s’ammalò sul cominciar d’agosto,Men dal lavor che da’ gran caldi stanca.Ei dell’assenza sua s’avvide tosto:E, — qualchedun di voi, disse, qui manca. —Poiché del mal di lei gli fu risposto,Con voce incerta, che parea pur franca,— Se infermo, comandò, servo od ancellaCade de’ miei, ne vo’ saper novella.—Ed al castaldo poi: — forse l’avrannoL’opre ingiunte da te stanca e accaldata. —— Lavorò come l’altre. — E non ve n’ hannoAltre con febbre ? — Ell’è sola malata. —— Fu, più ch’a tutte, a lei crudel quest’ anno:Con carità vogl’io che sia trattata.Non che tra l’altre e lei ponghiate guariDivario: a tutti la pietà sia pari. —Di lei gli cale, e al mal di lei ripensaCon più molle pietà che non vorrebbe.E di saper sue nuove ha voglia intensa;E, di lei chiesto un dì, poi gli rincrebbe.E tra’ libri, ne’ campi, in chiesa, a mensa,Sente un tumulto in cuor che mai non ebbe.A passeggiar leggendo esce una seraVerso la casa ove sapea ch’ell’era.Quasi impensato, un prepotente affettoCondusse a quella stanza i passi suoi.Com’ella il vide: — oh siate benedetto,Che pur vi tocca un po’ cura di noi! —Indi lo prega le si accosti al letto,E, — vorrei, dice, confessarmi a voi. —Usciron tutti: ed ei l’uscio socchiusoAperse, e accanto a lei siede confuso;Che le confessa, basso lagrimando,Suoi pochi falli e suoi molti dolori:E della madre gli vien raccontando,E de’ sepolti ed innocenti amori.Il vescovo dicea: — ti raccomandoNon isviar la mente in grati errori.Figlia, più gravi, quanto men sentite,Del memore desio son le ferite. —— Come schiantar la rimembranza infittaDal dolor nuovo e dall’antico affetto?Vedova pria che moglie, derelitta,O di servile amor misero oggetto. —— Chiedi nuovi pensier’: chiedili, afflitta;E Dio te li farà nascere in petto. —— La bontà vostra sola il pensier mioRistora. — Or ben, grazie ne rendi a Dio.Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Per me prega: e se cosa ti bisogni,Chiedi, e averai di me più che padrone. —L’assolve, ed esce; e par che si vergogniDelle parole che le disse buone.Spesso al dolor di lei pensa, e ne’ sogniLa vede e nella calda orazïone:Sana la prega; ed è ne’ desir’ suiCh’ella richiegga confessarsi a lui.Ciò più volte ella chiese. E più la udiva,E men se ne partia di sè contento.La smania in lei del pianto era più viva,In lui più fondo e amato il turbamento.E in rimirarla un lungo ardor sentiva,Una pietà che gli facea spavento.Un dì, mentre ch’egli esce, ella di grataTenerezza innocente inebrïata,Tese le man’ vêr lui fuori del letto,E fuor con mezza la persona s’erse,E le giovani braccia e il giovin petto,Mezzo velato da’ capei, scoverse.Quasi a suon di battaglia, a quell’aspettoRaccoglie il pio le sue virtù disperse,E fugge: ella rimase a tese braccia;Poi con le aperte man coprì la faccia.E, più che di peccato, vergognosaÈ di quell’atto, e dentro si tormenta;E richiamare il vescovo non osaChe la confessi, e il guardo suo paventa.E, mezzo inferma ancor, desiderosaD’uscir si mostra; ed esce, ed è contentaDi rivederlo; ed egli la saluta,E le domanda se sia rïavuta.I miti soli e la serena brezzaDel primo autunno già la rïavea,E dagli occhi la calda giovanezzaE dalle gote languido ridea.Tal, dopo quete pioggie, in sua verdezzaIl crescente arboscello si ricrea,E dalle foglie trepide rifrangeLa luce, e quasi di letizia piange.Un dì che al bosco, incontro al sol cadenteInginocchiata, e, gli occhi al ciel, pregava,E passe foglie l’arbore pendenteE luce ed ombra sovra lei versava;Ei di lontan la vide, e mestamenteOr il cielo, or la selva, or lei guardava.Agnese, udito uno stormir, si scosse;Lo vide, e sorse in piedi e vêr lui mosse;Che parlar le volea: ma nel sentireFruscìo di piedi tra le passe fronde,Nell’alta selva, senza nulla dire,Com’uom ch’è colto in fallo, si nasconde.Non intese il perchè di quel fuggireL’afflitta, e ne’ pensier’ suoi si confonde:E, chiesto di parlargli il dì seguente,Con voce piena del pianto nascente,Gli dice: — O mio signor, che v’ho fatt’ioChe voi m’odiate ? Se meschina i’ sono,Deh non siavi in dispetto il grado mio;E se in cosa peccai, chieggo perdono. —Ed egli: — Altro pensiero ier mi rapio,Nè a te badai. — Gli è ver, voi siete buono,Signor, diss’ella: ma chi è che osservaLa presenza e i dolor’ d’una vil serva? —Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Così se n’esce tra turbata e altera,Come s’ella signora, ei servo fosse.Nè mai commessa grave colpa veraContra Dio, tanto in lui dolor commosse,Come adesso l’aver con faccia austeraViste sue luci umilïate e rosse.E s’adira e si cruccia, e sì s’affrangeNella tempesta de’ pensier’, che piange.Qual chi stende la mano, e di petecchiaContagïosa il reo gavòcciol senta,Dubbio del certo male, e si rispecchiaEntro la spera, e con la man ritenta,E, spaurito, a scappar s’apparecchiaDall’uncin della morte che lo addenta;Tal Zanobi. E diceva: — ahi sciagurato,Non ti nasconder più: tu se’ malato. —A un’immagin levò di Nostra Donna,Ch’alta sul letto avea, gli occhi languenti.Ma sostener non può viso di donna,Com’occhio infermo i rai del sol ferventi.E qual chi teme di morir se assonna,E pur non puote che non s’addormenti;Tal egli il suo rischio ama, e il suo mal sogna;Nè del vincente amor più si vergogna.Talvolta il buon pensier vien poderoso,Poi, qual suon che digradi, s’allontana,A que’ dì papa Sergio, a cui FormosoRapir volea l’autorità sovrana,Scelto avea, come in luogo di riposo,Soggiorno nella Marca di Toscana.Fu lì lì per mostrar più volte a luiIl vescovo gl’infermi pensier’ sui;Ma teme nol riprenda, e al cuor piagatoTroppo crudel rimedio non comande.Un giorno che, più fosco dell’usato,Male intender parea le altrui domande,Gli disse il papa: — tu mi par’ gravatoD’un segreto dolor. — Dolore, e grande(Il vescovo rispose): ed io vorrei,Padre, leggeste in fondo a’ pensier’ miei. —Sergio a lui: — la sua doglia a ciascun preme:Me pur auge, o figliuol, sospetto e sdegnoDe’ miei nemici e nostri, e cura insiemeDell’alta sede a me commessa indegno. —Tale risposta al vescovo ripremeL’affanno dentro, ond’egli il cuore ha pregno.Però propose non narrar che a DioDel pudor le battaglie e del desio.Ma, come a’ colpi d’implacato acciaroGrave armatura cede a poco a poco,E sempre men possente oppon riparo,E già si smaglia e arrossa in più d’un loco;Così cede al pensier crudele e caroZanobi, e anela al duol siccome a gioco:E senza più terror, senza consiglio,Attrae con gli occhi immoti a sè ’l periglio.Con papa Sergio visitò ’l marcheseAdalberto, e sedette alla sua mensa.Mentre quant’ha delizie il bel paese,Quanti ricchezza umana agi dispensa,Mira, ode, assaggia, al tuo, povera Agnese,Dolce-arridente lagrimar ripensa;E quante vede giovani, con prontaCura, e quasi materna, a te raffronta.Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Più pensa, e più delle mortali coseGl’ingombra il cor la sonnolenta ebbrezza;E le disperse memorie amoroseRaccoglie dell’ardente giovanezza,E le rintreccia, e di recenti roseQuasi un serto ne fa, che punge e olezza.Or lambe il reo padule, ed or leggieroSpande l’ali nell’alto, il suo pensiero.Ma non mai dell’aiuto di MariaDispera in cor, nè la final disfattaPrevien colla scorata fantasia;Sempr’erra, e sempre i grati error’ ritratta.Qual chi su lieve tavola si stiaIn mar sospeso, e l’onda insana il batta,Sempre il lubrico legno rïafferra,E guarda ansante alla contesa terra.Ma poi che il papa alfin si fu partito,Torna alla greggia sua l’egro Pastore,Che risolse dell’animo feritoDisvelar la vergogna a un confessore.Sceglie un prete, nell’armi incanutito,Che gli ultim’anni avea sacri al Signore:E— «a Dio, comincia, agli Angeli, a Maria,Confesso, e ai Santi, e a te, la colpa mia.La colpa mia, la colpa mia confesso.» —E narrò la pietà, l’ignudo senoDella fanciulla, il guardo mal represso,E de’ tenui pensier’ l’acre veleno.— Figliuol mio, dice il prete al genuflesso,I’ pregherò, perchè non venga menoA noi l’esempio tuo. Pèntiti; ed ioT’assolvo: in ciel così t’assolva Iddio. —Più di lunghi consigli o di rampognaGli andò diritta al cor quella parola.Tra ’l timore e il rimorso e la vergogna,Del non esser più reo pur si consola.Tale colui che fiero danno sogna,Che col sonno il terror parte s’invola.E tal, dopo il fervor della tempesta,Il mareggiar del lungo fiotto resta(Pieno ancor del periglio, il naviganteGuarda ora al mare, or alla frale barca):Tal egli col pensier per tutte quanteDel non percorso error le vie rivarca.Di pastor, fatto lupo; osceno amante,Di padre pio; la torba anima cârcaDi gelosie, terror’, corrucci e scorni;Le notti in pianto, in ignominia i giorni.Rabbrividìa pensando. In questa, inteseChe del palagio un servo giovanetto,Del far gentile e del dolor d’AgnesePreso era, e la chiedea con molto affetto.Di pena un misto e di piacer comprese,A quell’annunzio, di Zanobi il petto:Fe’ venir la fanciulla; e, più turbato,Ma con più dolce accento dell’usato,— Agnese, incominciò, l’ultima voltaChe al mio cospetto a lamentar venisti,Confesso, Agnese, i’ t’ho non bene accolta;Di che trafitta, dolorando uscisti.Non creder già che molto affetto e moltaDe’ casi tuoi pietà non mi contristi.Questo dirti volea, figlia e sorella:Poi debbo anche annunziarti una novella.Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Un tuo compagno, il giovane Leone, Par che ti voglia bene, e sua ti chiede.Pensa, figliuola: e se il cor ti disponeVêr lui (buono e’ mi par), dàgli tua fede.Del dubbiar tuo ben veggo la cagione:Prole crear del tuo servaggio eredeNon ti dà ’l core. Or t’assicura: IddioA ciò porrà rimedio, e il tempo, e io.—Agnese a lui: — non so s’io dica o taccia:Ma forse che Leon conosca alcunaDelle bontà che voi m’usate, e facciaVista d’amarmi per mutar fortuna.—D’affettüosa, a questo dir, la facciaDel vescovo si fa severa e bruna.E — credi tu che la pietà, riprese,Ch’io del tuo duol mostrai, gli sia palese? —— Non so: gli è un mio pensier. — CandidamenteDisse (e giungea le man’) la giovanetta.— M’accerterò ben io della sua mente, —Dice Zanobi; e la rimanda in fretta.Men di vergogna che d’orgoglio ei senteAl cuore insopportabile una stretta.Passeggiava a gran passi: — e che? sareiFavola già, diceva, a’ servi miei? —Ma fu breve il bollore: e un più gentilePensier nella sedata anima scese.Ritto e fermo dicea con fronte umìle:— Lo sa Dio, non foss’altri, e sàllo Agnese;Che di me forse ride, e a lei par vileE stolto affetto quel che a me cortese.Semplice pare agli atti: ma chi maiDonna conosce? e tu di lor che sai?Non cercar, sventurato, a quarant’anniMiseria ignota e irrisa e infame e rea.Pensa a quel tempo che non d’altri affanniChe degli altrui pietà ti possedea.Salvami, o Madre, da crudeli inganni,Tu, del sicuro amor serena idea:Sgombra co’ rai dell’immortal tuo giornoLa sozza nebbia che mi fuma intorno. —E, quasi molla che, pigiata, scatti,Da quel breve pregar s’alza mutato;E in alti affetti e varii e in virili attiVersa ed afforza l’animo turbato.A Leon parla, e con acuti e rattiAccenti tenta del suo cor lo stato;E sente (come quei che i veri appreseSegni, in breve, d’amor) ch’egli ama Agnese.Degl’indugi temente, a sè richiama,Di rivederlo lieta, la fanciulla:— Vidi Leone, e ti so dir ch’e’t’ama:Il cuor per esso che ti dice? — Nulla. —— Giovane è pur. — Fin troppo: e in folle bramaDi clamorose gioie e’ si trastulla. —— Altri fors’ami.— No.— Migliore sposoSperi? — Pensare all’avvenir non oso. —— Ma se dal mio dominio ir ti lasciassiLibera sì del capo e sì del cuore? —Agnese verso lui si fe’ due passi,Lieta, con atto che parea d’amore.Poscia, richiusa in sè, cogli occhi bassi:— Che farei sola e povera, o signore?E chi guardare, e chi nutrir vorriaL’orfana inferma giovanezza mia?Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.Umil, nè in tutto a voi spregiata, ancellaStarò, finch’altro di me voglia Iddio. —Ed ei: — così non può durare. — Ed ella:— Perchè durar non puote, o signor mio? —Quei la sogguarda fiso, e non favella;Ella il rimira in atto incerto e pio;S’intenerisce, e teme, e non intende,Lui che, fra il dubbio ed il timor, s’accende.Ed or fuggire con terror vorria,Or accostarsi e prenderla per mano,Aprirle il cor ferito, e l’agoniaSfogar del lungo desiderio insano.Levò ’l guardo, e all’immagin di MariaL’affisse; e allor su un seggio più lontanoS’assise brancolando, e, a terra gli occhi,E le convulse man strette a’ ginocchi:— Agnese, a tal siam noi, che non possiamoVivere ormai sotto un medesmo tetto.Serva vederti non poss’io, che t’amo,T’amo di forte ed inconcesso affetto:Nè tenerti potrei, siccom’io bramo,Senza tirar su noi giusto sospetto;Nè, che d’infame accusa il cârco restiSulla memoria mia, tu sosterresti.Questo non dovre’io farti palese;Ma nol posso celar. — Tacque, e riscossoQuasi d’alto pensier, poscia riprese,Lente abbassando ambe le man: — non posso. —Duolo, pietà, pudor, facean d’AgneseIl volto ad ora ad or pallido e rosso.Nuovo quel dire e strano a lei parea;Pure il cor mormorava: i’ lo sapea.Ei seguitò: — se l’ôr ch’ho per te dato,I’ non ricatto, farei dir la gente.Meglio è facciam le viste che al mercatoTi comperi a danaro un tuo parente.Quanto bisogni al tuo libero stato,Io vedrò di fornir compiutamente.E tu, da me lontana, in qual vorraiSolingo luogo, in pace i dì vivrai. —E la fanciulla allor: — di vostra manoLa libertà, signor, certo m’è cara.Pur temo forte che, di qui lontano,La vita non mi sia tetra ed amara.Ma spero (e prego non sperare invano)Ch’io non sarò del vostro stato ignara. —— Oh no! sciama egli. A Dio chieggo perdonoDi mia promessa. Uomo, e non Angel, sono.—Giunse in breve un de’ suoi, che in dì di fieraLa riscattò con l’ôr che gli fu dato.Agnese venne quella stessa sera(Sì Zanobi volea) prender commiato.La non parlava, sì turbata ell’era:E’ la guardava come trasognato.Una povera croce a un nastro appese,E gliela cinse al collo, e: — questo, Agnese,Questo ti sia memoria, le dicea,Del mio dolore. — Ed ella: — o padre mio! —E la man gli baciava, e soggiungeaInfra i singhiozzi, — vi consoli Iddio!Egli e voi mi perdoni: io son la reaChe tolsi pace a un cuor sì buono e pio. —— Tu la rea? — sclamav’egli. E le tremantiLabbra beean le lagrime stillanti.Foglio aggiunto con postille, r.Foglio aggiunto con postille, v.— Dimmi almen che per me Dio pregheraiTutti i dì. — Tutti i dì, con tutto il cuore. —— Che ne’ bisogni a me ricorrerai,Come a fratello? — Oh mio benefattore! ——Che, se uno sposo Iddio ti manda....— Oh mai.Non resta in questo cor luogo ad amore. —— L’Angel tuo ti protegga: Iddio ti diaOgni suo bene, Agnese,... Agnese mia. —Sola nel mondo, Agnese poco visse,E di febbre e di tedio si consunse.Venn’egli a lei già ’n fine, e benedisse,E del sant’olio i labbri e i piè freddi unse.Lungo al cammin di lui spazio prescrisseIddio: m’alfin l’ora beata giunse.La notte innanzi ch’e’morisse, inteseFioca una voce che parea d’Agnese.