• La carcere. A Enrico Stieglitz

    La carcere. A Enrico Stieglitz Bello il patir, se dall’umana valle Leva in alto il pensier sì che comprenda Più gran gioja di cielo e di campagna. Già del carcer la porta a me s’aprìa (Stanza d’onore), e dalla soglia il guardo Volsi, e ti vidi, Enrico, e il cor segreto, Più che in molti anni, in un balen conobbi: Ed or s’incontra nell’aperto sole Il mio col tuo pensiero: e da mattina Veggo una mano, al carcerier non vista, Come d’amico spirito volante, D’alto passar tra le ferrate sbarre, Stringer la mia. Ma tu per me gli aspetti Varii del mare, e la diffusa luce, Che par più viva all’alitar dell’aure, Godi nel cuore: e in nome mio saluta Quei che fede e valor creò dall’acque, Come dal campo i fior’, palagi e templi, Quanto vetusti più, tanto più cari: E le immagini sante e i monumenti Degli Antichi magnanimi saluta In nome mio: saluta i monumenti, Vera cittade, augusti altar’, che stanno Vivo esempio alla terra, al ciel preghiera. Nè questo nido è a me di gioie avaro. Come liquor che posi in terso vetro, L’alma s’appura in solitaria stanza, E del vero i color’ lieta rifrange. Pe’ silenzii notturni arriva intera La sommessa armonia d’una favella Desiderata, che i rumor’ del giorno Sperderian come fronde in gran tempesta. Nè mai con tanto amor dal cielo al mare, Che sotto i miti rai gioisce e trema, Corse l’occhio, e notai quale si aggiunga Pellegrino compagno ai radi e mesti Legni, onde omai, come canuta chioma Di pochi fior’ languenti, s’inghirlanda La riva a cui d’alte galee minaci Agile selva concorrea, sonante Di ben sudato argento, e di lontani Idïomi e di cantici e di trombe. Notai le tese vele a mover pronte, Ovver già stanche della lunga via; De’ remator’ notai la vigoria Leggiadra; e in ogni gondola, radente L’acque, di casto amor misi un segreto. E il favellìo che dal soggetto ponte Il pio di Chioggia pescator mi manda, Piacquemi come l’armonia d’un canto. E grazie rendo all’uccellin che degna Sulla finestra mia l’ali sue snelle Chiudere; e sento le colombe fide Scuoter le penne e mormorar d’amore. Ma più col cielo che col mar favella Lo sguardo mio (chè la stagione e il loco Mi son di verde avari; e poco fiore Orna la stanza mia più ch’oro e gemma). Più con il cielo che col mar favella L’occhio mio fioco; e il ciel co’ suoi colori Interroga e risponde a’ pensier’ miei. Nè mai sì mesto io prigionier lo vidi Ch’e’ non mi parli al cor liete parole. Se un vel di nubi tutto quanto il vela, Allor somiglia il dì notte serena; Ed in questo sognar l’alma s’appaga. Ma, quando scorgo dalle nubi un raggio, Qual da massi ammontati acqua corrente; Siccome a voce d’insperato amico, Il mar sorride; e quella mesta pace M’è più bella a veder che non la piena Gioja dell’aria, allor che il sole a nona I suoi candor’ fin quasi ai lembi invia Dell’Orïente estremo, e in sua favella Di presto a lui tornar gli dà speranza. Ma l’occhio mio, quasi piagato augello Che scioglier l’ali in vêr l’amato nido Brama e non puote, indarno all’universo Di fuora intende il volo, e un raggio invoca Che le lontane gli scolpisca e pinga Della terra e del ciel forme e colori. Ahi di tanta armonia giungemi, come A tarde orecchie, languido concento: Ogni leggiero digradar di lumi, D’ombra ogni vel, così scerner vorrei Come lo sposo nel baciar vagheggia Gli occhi e i capelli della moglie amata. Vorrei d’aereo poggio ogni risalto, Vorrei d’aeree nubi ogni figura Così veder, così ritrarre in carte, Come perito artier ciascun ordigno Dell’arte sua conosce e chiama a nome. Ma chi de’ fiumi conterà le stille? Nè vasel di parola è che comprenda Delle bellezze il mar che ha fatte Iddio. Già di questa, che ancor molto m’avanza, Gioja ringrazio, e in lei tergo il pensiero, Come fanciul che dal nuotato fiume Torna cantando, e vede al ciel salire Tra ’l verde il fumo dell’umìl capanna. Nella carcere, febbraio, 1848.