• APPENDICE. 21 FEBBRAIO 1848.

    APPENDICE. 21 FEBBRAIO 1848.

    (Questi versi, nella carcere austriaca scritti, poi stampati in Venezia assediata dall’Austria, pongo qui, con le parole premessevi allora nel giornaletto compilato da me, Fratellanza de’ popoli.)

    12 aprile 1849.

    «Addì 21 febbraio dell’anno scorso io scrivevo nella carcere questi versi, ch’altri lesse nel marzo; a cui se altra bellezza manca, certamente non quella della verità e dell’affetto; e li correggevo alla meglio il dì 24, dal quale incominciò nuova mossa alle cose di Francia, d’Italia, di Germania, d’Ungheria, de’ popoli slavi, di tutta forse l’Europa. Il nome della Repubblica francese trasse seco promesse, che dovevano essere intese e adempiute così come intesa e adempiuta la pericolosa parola del diritto al lavoro. La questione politica è divenuta sociale; ma nè governanti nè governati parvero accorgersi che la questione sociale risolvevasi nella morale, e la morale nella religiosa; e che per dirizzare il corso delle nazioni, conveniva salire alle origini sì dei popoli e sì dei principii. L’Italia nel mal preparato mutamento si dimostròpiù disuguale a sè stessa, perchè fu non ricordevole delle proprie tradizioni, ed ebbra di vanti. Ora l’ostentazione è degli augurii il più tristo, al sentir mio. E però fin dall’autunno del quarantasette io presagivo sventure, in vedere Piemonte, Toscana, Romagna già cantare vittoria del non assaggiato nemico. Possa l’esperienza, ch’è spesso impotente maestra alle nazioni, assennarci; possano le mie parole suonare non acre rimprovero, ma preghiera pia; possa la fiducia essere non inerte, il valore modesto; possa Venezia segnatamente, così come in antico, serbando l’indole sua propria, e rispettando l’altrui, mantenersi italiana con spiriti insieme e veneti ed europei.»

    Se dal ferito, ma tranquillo core Pietà profonda esprime Suon di severo amore; Perdona, Italia, alle dolenti rime. Mesta alle grida tue chino la faccia Fuor di stagion baccanti; E gli ozïosi vanti Suonan più tristo a me che ostil minaccia. Dispietate parole e malaccorte, E bandiere e bicchier’: mimiche scene. Così non si rinviene (Miseri noi!); così si corre a morte. Debole servo di signor fremente Sfugge al flagel per poco: Canta e saltella; e nell’infausto gioco Fischiar la sferza dietro a sè non sente. Suona sui labbri amor, ma si nutrica Entro al cupo de’ cuori odio e disprezzo. Questa è la piaga antica Onde uscì molto sangue, e ancor più lezzo. A te non par, ma prendi Dallo straniero, ancor, lingua e consiglio. Sei vecchia; e non intendi Nè le speranze tue, nè ’l tuo periglio. Dalla tedesca peste Mondar te stessa, Lombardia, non sai; Ma polvere ben hai Da fulminar, Sicilia, itale teste. Tende gli orecchi incerti, e non risponde Il popol tutto al grido in un concento, Quale lo mandan l’onde Quando in un fiotto le solleva il vento. Non vuoti nomi e non giurate carte, Ma di concorde amor fervido lume è libertate, inimitabil’arte D’alto patire e di leal costume. Spennata aquila sei, Nè puoi volar di lancio al monte in vetta. Ma, se non grande a un tratto, i’ ti vorrei Nel desio vereconda, o mia diletta. Deh! possan, quanti dal tuo sol festante Piovono in terra fiori. In mar scintille, e tante Vive virtù venir da’ tuoi dolori. Mallevador’ di vita S’alzan tra ’l cielo e il mondo i tempii tuoi. Germoglierà vigor di fede ardita Dall’ossa, Italia, de’ tuoi santi eroi. Chè dall’ossa de’ martiri germoglia, O bella Libertà, l’alber tuo santo: Nè fa sangue di re verde tua foglia, Ma gioie austere ed operoso pianto. E ancor non piante gioie, ancor diletti Non combattuti sognerete, o stolti? Convien la patria ricomprar de’ petti Nel sangue vivo, e nel sudor de’ volti. Convien, contenti a disagiate tende, Fida ai nepoti edificar la stanza. Quella che a molti secoli si stende Colla tratta d’un vol, quella è speranza.