• Mane, Thecel, Phares

    Mane, Thecel, Phares I Briaco, si fe’ Baldassar Gli splendidi vasi portar, Che al tempio di Giuda rapì Quel re che poi, bestia, muggì. E tutti negli aurei bicchier’ I grandi si misero a ber, Le mogli, le drude del Sir, E i muti lor Dei benedir Che l’uomo in metallo gettò, O in sasso od in legno tagliò. Quand’ecco sul muro una man Con dita che rapide van Scriventi una scritta ch’al re E a’ Grandi compresa non è. II re ne’ pensier’ si smarrì, De’ reni la forza sentì Fiaccata, e con trepidi piè Ginocchio a ginocchio battè. Suoi maghi e indovini chiamò: Aiuto, venite, gridò: La scritta chi legger saprà, Di porpora e d’oro potrà Vestirsi, e consorte seder In terzo del regio poter. I maghi le note non san Che scrisse l’orribile man: E il re, per lo grande terror, E i Grandi mutaron color. Chiamato, compar Danïel, Profeta del re d’Isräel: «Che far de’ tuoi doni, non so. La scritta, se vuoi, leggerò. Iddio, ch’è il padrone dei re, La gloria a Nabucco già diè, Gli diè la tremenda virtù Di reggere lingue e tribù, D’uccidere a pieno piacer, Far sorgere in alto e cader. Nabucco di contro al Signor Levò la superbia del cor: Ma Dio d’ogni onore l’orbò, Cogli asini al bosco il mandò: Bagnaro il ferino suo pel Le pioggie e le brine del ciel. E adesso il suo degno figliuol A Dio rinchinarsi non vuol: Ne’ calici sacri bevè, E i grandi e le drude del re Cantaron gli dei che non han Nè senno nè lingua nè man. Iddio sconoscesti: però Iddio quelle dita mandò Di mano veggente, immortal, Scrivente la scritta fatal, Che dice: ecco l’ultimo dì: Iddio lo tuo regno finì: Iddio di sua man ti pesò, Il peso calante trovò. Sei morto. La tua potestà Nel Perso e nel Medo n’andrà. II A fiero banchetto sedè La fame del popolo re; Nutrì, senz’amor nè pietà, La sua con le altrui libertà; De’ popoli bevve nell’ôr Le lagrime, il sangue, i sudor’; De’ pesci la carne cibò Che l’uom di sue carni ingrassò; Sull’armi sdraiossi alla fin, Briaco d’orgoglio e di vin. Quand’ecco terribili a udir Falangi da’ Borea venir, E Roma col lungo ulular Dal duro letargo destar, Che indarno col ferro e con l’or Discaccia l’avaro furor. Qual vento che il verno soffiò, Qual flutto che ’l turbo gonfiò, S’avventano senza pietà Su lei che difesa non ha: La forzano i barbari re, Forzata, la pestan co’ piè; E il cranio in cui bevono è pien Del sangue del fiacco suo sen. III. O Grandi di Francia! e a voi pur Conviti larghissimi fur; E il povero a voi li imbandì Con l’opra de’ lunghi suoi dì. Gettastegli a’ piè, com’a can’, Voi, vili, l’oltraggio ed il pan: Voi vili per tutta mercè Sfioraste d’onore e di fè La vergine ch’egli educò, La donna che il misero amò. Diceste agli afflitti: godiam Co’ bruti, chè bruti noi siam. Ridiamo: la morte verrà, E il fango nel fango cadrà. Dormiron ne’ fiacchi piacer’: Quand’ecco leggiera a veder Sugli ebri una scure s’alzò, E al torbido sol balenò, E scese veloce e salì, E vili e possenti finì. IV. Un popolo i mari passò, Austera una razza creò, Rampollo divelto dal sen Materno, che in forte terren I rami nel libero va Spandendo, e gran selva si fa. Fanciulla non rise o vagì, Di vergine amor non gioì; Ma crebbe possente a raccor Adulte le gioie e i dolor’. Gettossi bramosa sui ben’ Che crescon dal fango terren, Feroce con lor s’abbracciò, E quasi d’amor palpitò. L’immenso de’ campi ondeggiar, Le immense pianure de’ mar’, De’ fiumi il profondo muggir, De’ boschi il sublime stormir, Ridusse in venale valor: E l’uomo (tremendo tesor) Al tasto e al color giudicò; Gli spirti al mercato comprò: La morte ai Selvaggi vendè, E il vizio, più dura dei re. Ahi popol mercante ed artier, Briaco di grossi pensier’, La razza, tuo spregio e terror, Segnata d’infame color, Un dì sulla tua libertà, Qual grandine grossa, cadrà. Deh rompi la nebbia il cui vel Ti toglie i sereni del ciel. Colui che tu chiami Signor, Fu semplice e mite di cuor. …………………………………… 1837.